«Investire è una priorità»

«Allo stato attuale, la limitata attrattività del Cantone Ticino per gli studenti confederati suggerisce che le aspettative politiche riguardanti il ruolo dell’USI quale istituzione che favorisce la coesione nazionale non sono ancora state soddisfatte». L’indagine La mobilità degli studenti universitari - curata dall’Ufficio del controlling e degli studi universitari (UCSU) per conto del DECS e pubblicata nell’agosto dello scorso anno - arrivava a questa conclusione, tra le altre. Si ricordava anche che «il discorso sull’attrattività del territorio non può limitarsi a riflettere solamente sul polo universitario ticinese, ma dovrebbe considerare l’attrattività del Cantone Ticino anche per i giovani lavoratori e per le persone considerate personale altamente qualificato». Insomma, la responsabilità di una crescita non è soltanto delle università ticinesi - USI e SUPSI -, bensì del territorio tutto. Si è tornati a parlare del tema mercoledì sera, proprio all’USI, con una tavola rotonda a cui hanno partecipato Luisa Lambertini, rettrice dell’USI, Franco Gervasoni, direttore generale della SUPSI, Luciana Vaccaro, presidente di swissuniversities, Mauro Dell’Ambrogio, già segretario di Stato per la formazione, e lo storico Filippo Contarini (UNIL).
Interessante è stata, in particolare, la premessa di Marina Carobbio Guscetti. La consigliera di Stato ha proprio parlato dell’importanza di «rafforzare il tessuto economico e sociale». Insomma, un altro modo per ribadire come le scuole universitarie non siano che una parte dell’argomento. E allora se si spera che «chi parte dal Ticino per studiare oltre San Gottardo abbia in valigia un biglietto di ritorno», si deve fare in modo anche di «investire nell’implementare le opportunità sul territorio». Lo stesso vale se si sottolinea il peso - la necessità - della presenza di studenti confederati in Ticino. Ma il Ticino oggi è, per dirla con la responsabile del DECS, «una terra d’opportunità»? Investire nella formazione, in questo senso, «è una priorità».
Il rischio di problemi sistemici
Già, investire. Il problema è che, all’orizzonte, si profilano i tagli (anche) sul settore. Swissuniversities li ha quantificati: «Il Consiglio federale propone tagli di oltre 460 milioni di franchi svizzeri all’anno. Questi riguardano la formazione professionale, la formazione continua, le scuole universitarie e le organizzazioni per la promozione della ricerca e dell’innovazione». E allora quanto è forte il rischio che tali disinvestimenti azzoppino l’attrattività delle nostre università, già costrette alla competizione, a enormi sforzi, ad andare oltre gli ostacoli più naturali (come la lingua)? «Il rischio è forte, perché non potremmo più fare l’attività di ricerca e di formazione che vogliamo fare», ha sottolineato Luisa Lambertini. «L’effetto di questi tagli è che potrebbero portare a un problema sistemico», le ha fatto eco Franco Gervasoni. Aveva d’altronde già avuto modo di dire come le misure di risparmio fossero in realtà «investimenti mancati nelle nuove generazioni». Secondo il direttore generale della SUPSI, ci sarebbero effetti diversi - sulla possibilità di creare condizioni quadro favorevoli, sulle reti create faticosamente in tanti anni di lavoro, sulla promozione della ricerca - che potrebbero portare a una potenziale «concomitanza di situazioni critiche». E poi, ha evidenziato ancora Gervasoni, «i contributi federali hanno un effetto armonizzatore tra Cantoni forti e Cantoni finanziariamente più deboli e questo verrebbe meno». Ovviamente a discapito dei Cantoni più deboli.
Luciana Vaccaro sollecita la politica: «Dovrà porsi qualche domanda: quante università vorrà? Dove? Piccole? Grandi? Noi oggi siamo fieri di ciò che abbiamo, delle università di prossimità, del contributo che offrono sul territorio, ma potremo ancora permettercele? È una scelta a cui, di questo passo, sarà chiamata la politica, non i rettori e i presidenti degli atenei». «Non si può pensare però che situazioni congiunturali ci portino a cambiamenti strutturali sul lungo periodo», ha risposto Lambertini. «La Svizzera tra qualche anno si ritroverebbe a pagarne le conseguenze. Oggi gli studenti scelgono le università svizzere perché sono stati fatti investimenti importanti in formazione e ricerca. Cerchiamo di non distruggere le potenzialità della Svizzera». Anche perché, come sottolineato da Gervasoni, a quel punto «le scuole universitarie non riuscirebbero a sostenere la società nell’affrontare le sfide del futuro».
Perché si torna lì, al concetto più volte riportato nella serata secondo cui le università sono parte, con la politica e l’economia, di un ecosistema, che va continuamente nutrito al fine di renderlo virtuoso, e non vizioso.
«L'innovazione è essenziale per il benessere del Paese»
L'Intervista a Marco Martino, responsabile per la Svizzera italiana di economiesuisse
Perché è tanto importante, per l’economia, che formazione, ricerca e innovazione abbiano un peso specifico nel territorio?
«L’economia beneficia grandemente di un ecosistema di formazione e ricerca forte, in grado di formare manodopera qualificata e creare competenze favorevoli all’innovazione. Gli investimenti nell’istruzione e nella ricerca hanno un impatto a lungo termine e costituiscono una base fondamentale per l’innovazione. E le innovazioni sono necessarie per creare valore aggiunto. Solo se l’economia svizzera continuerà a essere altamente innovativa potrà continuare a pagare salari elevati. L’innovazione è essenziale per il benessere. Al contempo, anche l’economia contribuisce fortemente al successo di questo ecosistema, fornendo posti di lavoro e investendo in attività di ricerca e sviluppo. Così si innesca una dinamica virtuosa».
Come osservate, in questo senso, la possibilità di tagli da parte del Governo in questi settori?
«Per quanto sia delicato e potenzialmente problematico, questo passo è comprensibile. È importante guardare al quadro generale. La Confederazione deve rispettare il freno all’indebitamento e garantire la sostenibilità del bilancio a lungo termine. Noi sosteniamo questi sforzi. Se si deve risparmiare, allora è giusto farlo in tutti i settori. Un gruppo di esperti ha valutato una serie di possibilità per risparmiare. È importante che questo pacchetto di risparmio sia approvato senza prevedere tagli. In questo modo le spese non vincolate, come quelle del settore della formazione, ricerca e sviluppo, ne risentirebbero meno. Non fare nulla sarebbe sbagliato. In questo caso ci troveremmo confrontati ogni anno con il dibattito sulle misure di risparmio».
Un’alternativa potrebbe arrivare dagli investimenti privati. L’economia ha le possibilità per procedere in questa direzione?
«L’economia sta già incrementando i suoi sforzi in questo senso: dal 2021 le imprese svizzere hanno aumentato la spesa in R&S del 3,5% all’anno, per un volume di investimenti complessivo pari a 18 miliardi nel 2023. Si tratta di somme molto ingenti. È fondamentale che le condizioni quadro siano favorevoli alle imprese. Solo così saranno disposte a investire. Un elemento molto positivo è che abbiamo nuovamente accesso a Horizon Europe. Ma se i Bilaterali III venissero respinti, questo accesso verrebbe meno. In diverse occasioni è stata anche richiesta una limitazione dell’immigrazione. Tuttavia, per la R&S sarebbe fatale se le aziende svizzere non potessero più assumere ricercatori e sviluppatori stranieri».
Mercoledì si è parlato di mobilità studentesca e dell’importanza di non perdere i propri studenti una volta laureati. Avvertite una responsabilità oltre l’opportunità?
«È impossibile separare opportunità e responsabilità in questo ambito. Entrambi sono elementi imprescindibili per il funzionamento a lungo termine dell’ecosistema. L’economia è alla disperata ricerca di manodopera qualificata che è sempre più difficile da reperire. Dall’altra parte, i laureati hanno sicuramente il desiderio di trovare un buon impiego. Inoltre, c’è un senso di responsabilità al quale l’economia non vuole e non può certo sottrarsi. Prendersi cura del proprio territorio, in questo caso verso gli studenti che si affacciano al mondo del lavoro, è inevitabile se si vuole continuare a essere attrattivi nel lungo periodo. Per quanto riguarda gli studenti che provengono da Paesi terzi, il discorso è simile ma si complica ulteriormente poiché questi sono tenuti a lasciare la Svizzera già sei mesi dopo la laurea. Per trovare lavoro, spesso devono prima completare uno stage. Le tempistiche ristrette complicano la situazione e, molto spesso, questi studenti decidono di lasciare la Svizzera. Questo è un gran peccato anche perché la spesa per una formazione universitaria (bachelor e master) ammonta a circa 23.000 franchi per studente all’anno, 133.000 per l’intero percorso di studi. Secondo la Conferenza svizzera delle scuole universitarie, gli studenti stranieri pagano in media 1.580 franchi all’anno. La differenza è a carico dello Stato. Attualmente il Consiglio federale sta analizzando una mozione presentata dal consigliere nazionale Dobler (PLR) che mira a cambiare questa situazione».