Il documento

La bussola di AITI per il Ticino

Presentato il Piano strategico per lo sviluppo economico - Oliviero Pesenti: «L’obiettivo è tracciare una via condivisa affinché il cantone possa crescere» - Stefano Modenini: «La formazione va aggiornata e l’innovazione va sostenuta in maniera decisa»
La riflessione dell’Associazione delle industrie ticinesi parte dalla formazione.

Parte dalla formazione scolastica la riflessione dell’Associazione delle industrie ticinesi (AITI) sullo sviluppo economico del nostro cantone. Una riflessione a tutto campo consegnata in un «Piano strategico» elaborato dal comitato dell’associazione con l’apporto di esperti «per provare a mettere sul tavolo una serie di temi con cui il Ticino deve confrontarsi», ha esordito il presidente Oliviero Pesenti. «Questa è la nostra visione per il prossimo decennio. Una visione che nasce dal basso e che si sviluppa tenendo in considerazione le esigenze dell’economia, i processi produttivi e le difficoltà del mercato del lavoro». L’obiettivo? «Aprire un dibattito, coinvolgendo le istituzioni e le aziende stesse».

«Il tedesco dalla prima media»

Come detto, il primo «fondamentale» capitolo riguarda la formazione scolastica, professionale e accademica. «Alcune misure sono trasversali a tutta la formazione. Altre si rivolgono alle aziende», ha spiegato il direttore di AITI Stefano Modenini. In questo primo capitolo troviamo quindi spunti da approfondire ma anche richieste puntuali, come, per esempio, la necessità di reintrodurre il tedesco dalla prima media, «un idioma che ancora fa la differenza nel mondo del lavoro, specie in ambito tecnico, e che difficilmente è recuperabile in un secondo tempo». Stesso discorso per gli studi liceali: «Il tedesco deve tornare obbligatorio».

Da un punto di vista più generale, il piano strategico di AITI intende porre l’accento sulle competenze tecniche e digitali, «che andrebbero aumentate sia nelle scuole dell’obbligo, magari con una formazione di base, sia nei livelli professionali». È la stessa evoluzione in atto a livello economico a richiedere una svolta in questo senso, ha detto Modenini anticipando un’altra riflessione sull’orientamento scolastico e professionale: «Il lavoro degli orientatori deve essere il più possibile aderente ai cambiamenti che avvengono nel mondo professionale». A questo proposito, Modenini ha ribadito la richiesta che l’apprendistato venga tenuto maggiormente in considerazione. «Qualche miglioramento c’è stato. Rimane tuttavia ancora un profondo discrimine culturale che porta i giovani e le famiglie a scegliere il percorso degli studi classici senza considerare altre possibilità, come, appunto, l’apprendistato, ha detto Modenini. In questo filone si inserisce la necessità di migliorare i legami tra azienda e scuola, anche attraverso una conoscenza più approfondita delle aziende sul territorio da parte degli stessi orientatori. «Se fosse necessario, anche attraverso una formazione specifica».

Sempre in quest’ottica trova posto la richiesta - «che farà certamente discutere» - di spostare l’Ufficio dell’orientamento scolastico e professionale dalla Divisione della scuola, alla Divisione della formazione professionale. Una proposta di rottura a cui si aggiunge un’altra ipotesi da approfondire: «La creazione di un percorso formativo a carattere industriale». Oggi esistono già delle formazioni in ambito industriale, per esempio, il Centro di competenza tecnica a Bellinzona, l’ex Arti e mestieri. Secondo i vertici di AITI, «andrebbe tuttavia valutata la creazione di un percorso tipicamente industriale con una formazione di base comune a tutti gli studenti, comprendente materie tecniche, meccanica, informatica e elettronica, e poi un biennio in cui approfondire le materie direttamente in azienda». Sulla formazione accademica, per contro, AITI non è entrata nel merito, se non per segnalare che «anche USI e SUPSI devono interagire regolarmente con il territorio allo scopo di trovare un equilibrio migliore tra formazione ed esigenze delle imprese e del mondo del lavoro».

«Milioni per l'innovazione»

Altro capitolo, l’innovazione e la necessità di creare un ecosistema che funzioni. Che si autoalimenti. E che porti valore aggiunto e posti di lavoro. «Serve un cambio di passo», ha detto Pesenti. «In Svizzera abbiamo esempi illustri di Cantoni che hanno deciso di investire. Ma per farlo realmente, servono milioni». Modenini ha evocato l’esempio del Vallese, un cantone non dissimile dal nostro, ma con il coraggio di investire 400 milioni su alcuni progetti strategici, grazie a una proficua collaborazione tra pubblico e privato. Nell’ambito del futuro parco dell’innovazione, che sorgerà a Bellinzona, ha detto Modenini, andranno fatte alcune scelte creando dei centri di competenza tematici basati sulle esigenze dell’economia cantonale, concentrandosi inizialmente su 1-2 progetti di valore. «Il Ticino deve essere conseguente ai proclami politici. Non si può fare innovazione con pochi milioni». A questo proposito, AITI ha individuato quattro aree d’interesse: le scienze della vita, la sostenibilità, la sicurezza digitale e l’industria in senso lato.

La cultura d'impresa

Un altro capitolo riguarda la cultura d’impresa, «non più sufficientemente considerata nella società ticinese, dalla popolazione e dalle istituzioni». Di qui, l’obiettivo posto dal Piano strategico: «Contrastare la mancanza di conoscenza del mondo industriale cantonale», facendo leva sul «ruolo degli imprenditori nella creazione di posti di lavoro e ricchezza». Spazio, poi, anche a una riflessione nell’ambito del mercato del lavoro: dalla necessità di estendere a livello cantonale le infrastrutture di rete necessarie per il telelavoro, alla necessità di rivedere gli accordi che regolano il lavoro a distanza dei lavoratori frontalieri. Ma anche la necessità di regolare meglio a livello di contratti quella flessibilità che oggi viene chiesta al lavoratore, così come la promozione della presenza femminile per rispondere al fabbisogno crescente di personale nei prossimi anni.

«Educare o istruire? Occorre integrare le due componenti»

«È meglio scegliere tra educazione o istruzione?». Il dibattito sulla formazione gira tutto intorno a questo quesito, secondo Fabio Merlini, direttore della sede della Svizzera italiana della Scuola universitaria federale per la formazione professionale (SUFFP). «La questione non è nuova e attraversa tutta la modernità. Fin dalla rivoluzione francese ci si chiede: dovremmo investire in un modello formativo più ampio, di tipo culturale, oppure pensare in termini più funzionalistici e immergerci nella dimensione dell’utile?». Fin dal ’700, ricorda Merlini, «ci sono state forze che sostenevano che la scuola dovesse essere orientata all’economia e al mercato. Per contro, altre correnti ritenevano che il compito fosse piuttosto quello di educare la cittadinanza, in una prospettiva umanistica». Cosa fare, dunque? «Dovremmo percorrere la via mediana», risponde Merlini. «Da un lato, non possiamo immaginare una formazione completamente avulsa dalle logiche della società, quindi è corretto provare a orientare la formazione secondo i bisogni dell’economia e del mercato, fare in modo che la formazione sia spendibile. Ma dall’altro lato serve equilibrio, perché se siamo ossessionati da una formazione orientata unicamente al mercato, finiamo per non fare il bene dell’economia stessa. Il mercato, infatti, necessita di profili che abbiano sostanza». In un’epoca come la nostra, soggetta a trasformazioni continue, «il profilo più spendibile non coincide sempre con quello più specializzato e la capacità di reinventarsi spesso poggia su una formazione a largo spettro, con solide basi culturali». Tuttavia, conclude Merlini, contrapporre le due visioni non sarebbe corretto: «Dovremmo cercare di integrare il più possibile queste due componenti , perché entrambe sono fondamentali». Un lavoro, questo, che deve essere svolto nelle scuole professionali: «Non è certamente un compito semplice, ma educare alla cultura - intensa nel senso più ampio, anche come cultura del lavoro e delle tecniche, e non in termini di vuoto nozionismo - fa sì che i ragazzi acquisiscano fiducia e capiscano che la cultura serve innanzitutto a loro stessi. E questo, nella nostra società, è estremamente prezioso».