«La mia quarantena? Bloccato in un villaggio cileno»

L’avevamo lasciato all’inizio di gennaio a Ushuaia, nella Terra del fuoco argentina, pronto a risalire il Sudamerica in sella alla sua bici lungo un percorso di oltre 10.000 chilometri. Ritroviamo Yuri Monaco, 29.enne di Capriasca, in quarantena in un villaggio cileno a causa del coronavirus. L’abbiamo raggiunto al telefono per farci raccontare come sta vivendo questa situazione lontano da casa e perché ha deciso di non tornare in Ticino.
Yuri Monaco è arrivato nella Terra del fuoco il 10 gennaio, ma sono successe così tante cose che sembra sia trascorso un tempo molto più lungo. «Ora sono a Futaleufú, nella regione di Los Lagos in Cile. Da quando sono arrivato in Sudamerica - racconta - ho percorso circa 2.200 chilometri in bici e fino a un mese fa qui non si sentiva neanche parlare del coronavirus: era una cosa distante. Non sembrava potesse materializzarsi anche qui e non c’era nessuna restrizione». Poi tutto è cambiato.


«Mi sono accorto che stava succedendo qualcosa di davvero grave quando sono arrivato nella città di Coyhaique e all’entrata di un bar c’era l’obbligo di disinfettarsi le mani. Il giorno dopo sono tornato allo stesso bar e in piazza, fuori da una roulotte, c’era una coda di persone con la mascherina lunga quasi cento metri in attesa di farsi vaccinare contro l’influenza. La tempistica degli avvenimenti mi ha colpito. Da lì è andato tutto molto in fretta: ci sono stati dei contagi in Cile e il Governo ha iniziato a introdurre misure restrittive». La situazione nel Paese è cambiata completamente nel giro di pochissimi giorni. Il 16 marzo l’Argentina ha annunciato la chiusura delle frontiere (e il piano di Yuri prevedeva proprio di andare in Argentina), seguita a ruota anche dal Cile, che a partire dal 18 marzo ha emanato lo «stato di catastrofe nazionale» per 90 giorni con lo scopo di controllare la diffusione del virus. A quel punto Yuri ha dovuto decidere cosa fare, e in fretta. A quasi 300 chilometri da Villa Manigales, dove si trovava quando il Paese ha iniziato a piazzare blocchi sanitari un po’ ovunque e si preparava a chiudere le province, c’è il villaggio di Futaleufú dove abita un suo amico pronto a mettergli a disposizione un posto in cui stare. «Non potevo permettermi di perdere tempo, - ci racconta - allora ho fatto autostop e sono riuscito a passare la provincia senza controlli e ad arrivare dal mio amico: prima di entrare in paese mi hanno misurato la temperatura, per fortuna era tutto ok. Era il 20 marzo». Circa una settimana fa hanno chiuso completamente il villaggio dove si trova Yuri. «Nessuno entra e nessuno esce», spiega.


Dal suo punto di vista, che è geograficamente lontano, come vede la situazione in Ticino? Risponde: «Da quello che sento la situazione è molto grave e sono preoccupato per i miei amici e la mia famiglia. Mi sento impotente, come è normale che sia. In tanti dal Ticino mi hanno detto di tornare e ci ho pensato seriamente nelle scorse settimane ma sono arrivato alla conclusione che non sia la cosa giusta da fare perché non avrei modo di stare in contatto con i miei cari. Ho fatto una lista di pro e di contro e hanno vinto i secondi: qui sono in una posizione privilegiata in mezzo alla natura, ho una casa dove stare, posso uscire a fare delle escursioni e faccio dei lavoretti, come tagliare il prato o la legna, per l’amico che mi ospita».

Va ricordato che il viaggio del capriaschese non è propriamente turistico: in Ticino ha detto addio a casa e lavoro e quando è partito aveva messo in conto di starsene in giro per «almeno un anno». Finora il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) ha organizzato 19 voli per rimpatriare cittadini elvetici all’estero, riportando a casa 2.400 svizzeri (dati al 5 aprile). «Contatti con il DFAE io non ne ho avuti - dice Yuri - perché non ce n’è stata la necessità. Però ho registrato la mia presenza qui sull’App Travel Admin (che permette di avere a portata di mano informazioni e prestazioni utili, non solo in caso di crisi, ndr.), quello sì».


Prima di salutarlo, chiediamo a Yuri come cambia ora il suo programma di viaggio. «I piani del mio viaggio sono già cambiati non appena è comparso questo virus e ora mi trovo bloccato, giustamente, contro la mia volontà. Rimarrò qui finché non si calmeranno le acque, sicuramente non sarà a breve termine. Poi, - conclude - quando la situazione sarà più tranquilla vorrei riprendere il viaggio sulla mia bicicletta ma si naviga a vista e non c’è un angolo di mondo che è al riparo da questo virus».
«Riscopriamo il bene collettivo»
Il viaggio di Yuri lo avrebbe dovuto portare a varcare numerosi confini. Confini ora chiusi a causa di un «nemico invisibile», il coronavirus. Che effetto fa? «Ho rivalutato il concetto di libertà - ci dice - che per me è sempre stato importantissimo. Ho sempre creduto nella libertà individuale come concetto assoluto e imprescindibile, ma mi sono reso conto che sbagliavo. In questo momento la privazione della libertà individuale è necessaria per potersene riappropriare in futuro. Oggi è fondamentale prendere consapevolezza che il bene individuale è determinato dalle azioni della collettività, ed il bene collettivo è condizionato dalle singole azioni di ognuno di noi», dice. E conclude con un appello: «Riscopriamo l’importanza della collettività a discapito del singolo».