La pandemia ha «rubato» due anni della nostra vita?

Il tempo scorre. È uguale per tutti, quando ci si muove all’interno delle convenzioni. È diverso per ognuno di noi, quando le nostre personali clessidre si riempiono di sabbia. Granelli che cadono a diverse velocità, e a volte rimangono sospesi a mezz’aria, come in quei famosi «5 minuti che sembravano un’eternità». È successo a tutti. «Time is never time at all», cantavano gli Smashing Pumpkins nel capolavoro di malinconia chiamato Tonight, Tonight. Una frase che non ha un’esatta traduzione, ma potrebbe suonare più o meno così: «Il tempo non è mai veramente tempo». Parole poetiche per esprimere un concetto su cui l’umanità si interroga da sempre. Diciamolo con la musica spenta: il tempo è relativo. E ovviamente la pandemia ha avuto il suo impatto anche su questo. Due anni che per qualcuno sono volati, mentre per altri sono stati una lunga moviola. Ma l’uomo come vive il suo tempo? Quando ci si sente invecchiare? Con l’arrivo del coronavirus, qual è stato il contraccolpo sulla nostra psiche, mentre il tempo scivolava via con il mondo in stand-by? Ne abbiamo parlato con il dottor Paolo Bausch, presidente della Società Ticinese di Psichiatria e Psicoterapia (STPP).
Il tempo si è spostato in avanti
Facciamo una premessa, «il tempo delle nostre vite si è spostato in avanti», sottolinea il dottor Bausch. «Si resta più a lungo a casa dei genitori, si fanno i figli più tardi, ci si identifica con una terza età più in là negli anni». Non è un caso che, ad esempio, la Società Italiana di Geriatria e Gerontologia abbia proposto di aggiornare il concetto di anzianità, portandolo dai 65 ai 75 anni. La speranza di vita alla nascita si è allungata: in Svizzera, nel 2020, era di 81 anni per gli uomini e di 85,1 per le donne, mentre nel 2000, era di 76,9 anni per gli uomini e 82,6 per le donne. Lo psichiatra, in questo senso, sottolinea: «Oggi c’è quasi l’illusione di un’eterna giovinezza, in cui bisogna essere sempre performanti e belli. Si fa più fatica ad accettare il tempo che passa. Questo vale in generale, ma poi ognuno di noi vive il fenomeno in maniera personale: affrontiamo gli eventi della vita a partire da quello che noi siamo. Pensiamo all’arrivo di un figlio o ai bambini che diventano grandi e lasciano il nucleo familiare. Tutte queste tappe segnano i cambiamenti legati allo scorrere del tempo e pongono chiunque, sia chi si sente vecchio sia chi si sente sempre giovane, davanti al fatto che la vita va avanti».
Adulto non significa vecchio
Proprio perché il tempo è relativo, viviamo le tappe della nostra vita in modo estremamente personale. Pensiamo a quando vediamo invecchiare i nostri genitori, o a quando il mondo intorno a noi sembra essere scomparso. Come quando i calciatori che amavamo da ragazzini smettono di giocare o i personaggi televisivi con cui siamo cresciuti spariscono dagli schermi. Può capitare di sentirsi dei dinosauri anche a 30 anni? Secondo l’esperto, «più che la contrapposizione tra giovane e vecchio, bisogna rendersi conto che esistono tappe intermedie: non essere più giovani non vuol dire essere già vecchi. Il tempo scorre e non si può restare degli eterni ragazzini. Il mondo con cui si è cresciuti e con cui ci si è identificati cambia, ma questo non vuol dire che si è diventati vecchi», fa notare Paolo Bausch, che aggiunge: «Vuol dire piuttosto esser diventati adulti, essere entrati in una fase della vita in cui ci si assume responsabilità diverse e in qualche modo non si è più figli, ma magari si è genitori. Finisce una fase della vita: si comincia ad essere giovani adulti che devono trovare un posto nel mondo e assumersi altre responsabilità. Bisogna ragionare dicendo: ”Il giovane non sono più io, ma non sono neanche il vecchio. Sono l’adulto”». Il medico continua: «Certo, ci sono persone che si sentono anziane prima del tempo, ma di solito succede a chi ha vissuto un’infanzia, o un’adolescenza, estremamente complicata, con molte sofferenze. Pazienti di questo tipo, a 30 anni dicono: ”È come se avessi già vissuto 3 vite, ne ho passate di tutti i colori”. C’è chi soffre di disturbi dell’umore o di depressione, in questi pazienti le idee di non avere un futuro fanno parte del quadro clinico. Di norma però, prima di sentirsi vecchi, è bene poter vivere appieno l’età adulta».
Quando scatta la crisi di mezza età
Un altro «sintomo» comune degli anni che passano è la cosiddetta crisi di mezza età, che, evidenzia lo psichiatra, «non è universale, ma è individuale. Esiste in tutte le vite un momento in cui si sente il bisogno di fare bilancio, e questo momento di riflessione può essere il motore della crisi stessa. La nostra esistenza in qualche modo si può dividere in due parti. La prima comprende la gioventù, la fase di giovani adulti, in cui si costruiscono cose, si ottengono diplomi, si mette su famiglia e si trova un lavoro. Insomma, si fanno tutti quei ”compiti” che fanno parte dal nostro sistema di valori. La seconda è quella parte della vita in cui i figli escono di casa, in cui magari ci si chiede se il proprio lavoro sia ancora quello giusto, e si fanno i conti con più tempo a disposizione». Il nostro interlocutore spiega: «Spesso si ha l’opportunità di coltivare degli aspetti più individuali e di sviluppo personale, ci si chiede: ”Cosa ho fatto finora?”, ”Cosa mi resta da fare?”. C’è chi reagisce bene, magari dopo una fase più introspettiva, più depressiva, cerca di cogliere nuove opportunità o apportare dei cambiamenti, poi c’è chi non vede più grandi prospettive. In questi casi si può affrontare una crisi più lunga, con un periodo depressivo prolungato. Noi psichiatri incontriamo regolarmente persone con questi problemi, la loro vita è cambiata e devono capire come ripartire». Secondo il dottor Bausch infatti: «Vivere vuol dire adattarsi, la vita è un’evoluzione continua, ma spesso tendiamo a dimenticarcene. Quando succedono cose che ce lo ricordano, è necessario rimettersi in gioco».
La pandemia, il limite e la perdita del controllo
Ma come si fa a rimettersi in gioco quando subentrano i ricordi del tempo che fu, quando pensavamo di poter «spaccare il mondo»? Il presidente della STPP spiega: «Questo è il grande tema del confronto con il limite e la perdita del controllo. Siamo abituati, soprattutto nella prima fase della vita, a immaginare che tutto è possibile, che siamo in grado di fare qualsiasi cosa in ogni momento e che saremo per sempre in salute. La pandemia ci ha ricordato che le cose non funzionano proprio così. Forse le generazioni prima delle nostre lo sapevano meglio, noi lo abbiamo un po’ dimenticato. Abbiamo vissuto in un’epoca in cui sembrava che tutto fosse possibile e che le cose fossero sempre sotto controllo: abbiamo rimosso, dove possibile, la malattia, la morte e gli imprevisti. Con la pandemia si è visto che in fondo bisogna tornare ad adattarsi alle situazioni più difficili: ci sono dei limiti e dei cambiamenti che non dipendono da noi. E questo vale per ognuno. Diventando anziani, il tema del limite si fa più pressante, perché non si riescono più a fare determinate cose. Questo non vuol dire che bisogna rassegnarsi ad una depressione o pensare di non poter più fare niente. Si tratta di imparare ad adattarsi man mano che la vita cambia, e non è sempre facile», evidenzia l’esperto.
Gli effetti del virus sul nostro tempo
«La pandemia ha avuto effetti dirompenti soprattutto sui giovani e sugli anziani», afferma il dottor Bausch, che prosegue: «I primi sono stati bloccati proprio nel momento della massima socialità, della scoperta della vita fuori di casa o di quella studentesca. Tutta la vita sociale relativa a quell’età è stata molto condizionata dalla situazione sanitaria. I secondi, pensiamo agli ospiti delle case anziani, sono rimasti completamente isolati, senza poter più vedere i parenti. Oppure pensiamo ai pazienti negli ospedali, che magari hanno dovuto passare gli ultimi giorni della vita senza avere il conforto dei propri cari. Con tutto il dramma legato all’elaborazione del lutto per chi è rimasto». Ma questa maledetta pandemia ci ha rubato gli anni? Il medico non ha dubbi: «La pandemia ha influito tanto: non ci ha portato via questi anni, ma ci ha costretto a cambiare le nostre abitudini in nome di questa nuova realtà. Il problema è stato doversi adattare all’arrivo del coronavirus. C’è chi ha saputo adattarsi meglio e chi con più fatica. Di sicuro in una prima fase si era più allineati, qualcuno ha anche provato un certo sollievo vivendo un calo dei ritmi e potendo stare a casa tranquillo. Poi, in una fase successiva, è diventata dura: non se ne poteva più, si era affaticati da questa situazione. È come se fosse arrivato uno stress ulteriore che, nelle situazioni già un po’ fragili, ha rappresentato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il disagio è aumentato per tutti: sia per chi era già dentro una rete di cure, sia per chi ha dovuto affacciarvisi perché la pandemia ha rotto un equilibrio». Il disagio ha colpito tutti, ma qualcuno ne ha approfittato per cercare un miglioramento. Lo psichiatra spiega: «C’è chi ha deciso di apportare dei cambiamenti positivi. Negli Stati Uniti, ad esempio, molti ne hanno approfittato per cercare un nuovo lavoro e una qualità di vita migliore. Qui invece si parla molto di persone che hanno cercato case più accoglienti, dove possibile, per adattarsi in modo diverso alla situazione. Ci è stato tolto qualcosa, ma ci è stato anche mostrato che è possibile riadattare la propria esistenza». Il medico conclude: «Molte persone si sono rese conto che non è stata la fine, ma che ci viene chiesto continuamente di cambiare, di adattarci. E questo è anche il bello della vita, nonostante a volte possa sembrare un fardello troppo pesante».
