Arogno

La piazza Granda e la scala del peccato

Con la riapertura del Café de la Poste il cuore del paese rinasce a nuova vita - Le ballerine, il parroco, il campanile
La piazza Granda di Arogno con il ristrutturato Café de la Poste. (Foto Putzu)
Fabio Pontiggia
Fabio Pontiggia
19.06.2019 06:00

AROGNO - Con quella del Valécc (dominata dalla magnifica Ca di Milanés) si contende il titolo di più bella del paese. Gli abitanti di lunga data forse le preferiscono quella, ma è comunque un bel derby. E poi, de gustibus... Stiamo parlando della piazza Granda (anzi: Piázza gránda, perché così vuole l’odonomastica ufficiale) di Arogno. Un tempo era il cuore pulsante del comune sulla sponda destra della Valmara. Poi il declino, il lento degrado degli edifici. Quindi la rinascita. Questo almeno è quello in cui confidano gli arognesi, dopo l’avvenuta ristrutturazione dell’ultimo edificio che mancava all’appello: il Café de la Poste. La piazza ha ritrovato il suo splendore, anche con la pavimentazione pregiata al posto dell’asfalto.

La casa sul lato orientale, che negli anni passati aveva ospitato la Biblioteca comunale, era stata la prima ad essere rinnovata. Un tempo vi abitava il Pinöö, Giuseppe Tomasetti, titolare del laboratorio di sartoria, che si affacciava sulla stessa piazza, e cultore di musica lirica (aveva un palco alla Scala di Milano). Le altre ristrutturazioni sono via via seguite. Su tutte primeggia quella del Teatro sociale, un vero gioiellino architettonico voluto nel 1883 da Massimo Cometta, fondatore - nel 1839 - della Filarmonica liberale: gli ultimi ritocchi risalgono al 2009.

Sulla sinistra, verso est, la Casa Cometta, che oltre al laboratorio di sartoria ospitava anche un atelier di orologeria. È l’edificio col portico, ristrutturato in anni recenti: fu sede della prima Cooperativa di consumo di Arogno. Sotto passa la strécia dal Ghétt, che immette sulla cantonale, la strada Növa. Sulla destra del Teatro sociale, verso ponente, c’è la Casa Tron, già dépendance dell’Albergo Arogno, poi acquistata dalla figlia di Alessandro Manzoni (il nostro Manzoni, quello dell’industria degli orologi). Tra questa e il teatro un’area aperta: c’erano l’orto e la serra dell’albergo, oggi c’è un posteggio. Al muro è addossata la fontana, dopo lo spostamento deciso quando venne edificato il teatro e praticata l’ampia apertura per il parcheggio. Dall’altra parte della piazza un bel giardino rialzato.

Restava dunque proprio soltanto lo stabile più imponente. Fatiscente. Ora, completamente ristrutturato, abbellisce ancor più la piazza Granda, tornando alla sua antica destinazione di ritrovo pubblico. Il nome, Café de la Poste, ricorda il passato di questo punto del paese. Nel bel volume Memorie di cose minute, curato per la «Collana Arogno racconta» da Mario Delucchi e Celso Tantardini (Fontana Edizioni, 2009), l’ex sindaco lo spiega molto bene nel capitolo Echi di Piazza grande: «Lo stabile (...) fu (...) legato alla posta a cavalli, come dice la sua denominazione (...). La piazza era il capolinea del servizio postale e il barroccio si fermava proprio di fronte al ristorante». Era anzi il Café Restaurant de la Poste, passato attraverso non poche gestioni e proprietà (famiglie Romanzini, Palleroni, Antognini, Pagnamenta, Bagutti, Matazzi, Delucchi). Oggi la sfida è stata raccolta dai due nuovi gerenti: Patricia Daverio, luganese, figlia d’arte (La Romantica di Melide, il Giardino di Sorengo) e William Cortenova, milanese. Come mai Arogno? «È stato un caso - risponde Cortenova - cercavamo un esercizio pubblico da gestire insieme, abbiamo visto un annuncio, Patricia conosce bene la zona». Poi «il primo contatto con il proprietario e il primo sopralluogo, nel settembre dell’anno scorso: è stato un colpo di fulmine, sebbene mancassero ancora le rifiniture». La piazza ha cominciato a rianimarsi. Su cosa puntate? «A creare un ambiente familiare: qui tutti i clienti devono sentirsi a casa, in questo angolo di paese, per rilassarsi, in tranquillità, protetti nella piazza. Sono evidentemente molto legato alla tradizione milanese dell’osteria: chi vuol mangiare mangia, chi vuol cantare canta» dice Cortenova.

Lo sa che questo locale ha una storia incredibile? «Oggi sì, ma non la conoscevamo quando siamo saliti ad Arogno. L’abbiamo scoperta parlando con gli anziani del paese».

Già: tanto per restare in tema, la storia del Café de la Poste ha un capitolo piccante, molto piccante. Celso Tantardini riferisce con dovizia di particolari quella memorabile stagione. «Dalla fine della prima guerra fino agli anni Trenta del Novecento, il ristorante fu gestito dalla famiglia Palleroni, un cognome che ricorda una località della Toscana di identica denominazione. Si rifanno a quel periodo, e forse anche ai periodi precedenti, le notizie di cronaca mondana che Riccardo Borella mi raccontava sui cantieri dove ci incontravamo, lui nelle vesti di falegname, io di giovane elettricista. Uno dei racconti - prosegue l’ex sindaco - riguardava appunto il ristorante in questione che, oltre alla ristorazione, offriva possibilità di svago che oggigiorno sarebbero riservate ai cosiddetti locali a luci rosse». Di cosa si trattava esattamente? «Per aumentare l’attrattività dell’esercizio - scrive Celso Tantardini - erano state reclutate alcune ballerine che, la sera, si esibivano in spettacoli di danza. E fin qui nulla di straordinario». Senonché «terminate le loro esibizioni, le ballerine salivano la scala a chiocciola che collegava il salone del pianterreno con il primo piano, dove si trovavano le loro camere, e lì attendevano visitatori più interessati alle loro curve che alla danza. Sembra che, a partire da una certa ora, la scala fosse sottoposta a un andirivieni di una certa intensità e che i buoni arognesi (...) avessero cominciato a uscir di casa più frequentemente del solito». La tranquilla vita di paese venne insomma movimentata. «Inutile aggiungere - commenta Tantardini - quanta preoccupazione suscitasse nelle massaie la presenza di quella scala tentatrice e quanti dubbi aleggiassero nelle loro menti quando i mariti annunciavano di voler andare in piazza per un bicchiere di vino».

Ma il bello arrivò dopo. Il cambio di gerenza mise fine alla stagione delle ballerine e la scala a chiocciola andò in disuso. «Per una di quelle coincidenze che la vita ci propone a volte nei momenti meno adeguati - narra ancora Celso Tantardini - il parroco di allora era alla ricerca di una scala da collocare nel campanile per salire in cantoria». Guarda caso la scala tentatrice aveva le misure giuste. «Se solo il suo passato peccaminoso avesse potuto essere cancellato, l’operazione, benché ardita, avrebbe risolto uno spinoso problema». Il povero parroco era combattuto. Quella scala in un luogo sacro? Come fare? Dopo molte notti insonni la «provvidenziale intuizione»: la scala venne collocata sul sagrato della Chiesa di Santo Stefano per nove giorni «e purificata mediante una novena di preghiere e benedizioni, dopo di che, redenta da ogni peccato, poté finalmente varcare la soglia della chiesa. Così, sacro e profano si unirono in un’unica, utile realizzazione» commenta l’ex sindaco. Il campanile, con la scala a chiocciola dimenticata da (quasi) tutti, vigila dall’alto sul paese.