Le cantine ticinesi sono stracolme, c’è vino per oltre due anni e mezzo

Tra la botte piena e la moglie ubriaca la viticoltura svizzera, suo malgrado, sembra doversi accontentare della prima scelta. Le cantine sono stracolme di vino e i trasformatori anziché brindare al consumo devono fare i conti con un mercato sempre più complicato, dove il vino d’importazione, solo per fare un esempio, costituisce circa il 60 % della fetta di mercato.
«In Ticino le giacenze nelle cantine ammontano a 33 mesi», spiega al Corriere del Ticino Andrea Conconi direttore di Ticinowine, l’organizzazione mantello della filiera vitivinicola cantonale. Detto in soldoni: per oltre due anni e mezzo le cantine ticinesi potrebbero vendere vino senza produrne di nuovo. Il problema? Semplice: si produce più di quanto si vende.
Una caratteristica che accomuna i principali cantoni vinicoli svizzeri e che di anno in anno, con l’arrivo della vendemmia, si ripresenta. Lo scorso anno, per esempio, in coincidenza con la pandemia, alcuni giovani coltivatori romandi e ticinesi portarono la loro protesta davanti a Palazzo federale, affinché la politica riflettesse sul fatto che le varie chiusure avrebbero pesato anche sulle vendite di vino, già da anni sotto pressione a causa di un mercato particolarmente esposto alla concorrenza estera.
L’impegno delle cantine
In Ticino, addirittura, la questione finì per creare non poche tensioni all’interno della filiera. Le cantine - confrontate con il problema delle giacenze e un mercato sempre più ingessato a causa della pandemia - decisero di ritirare meno uva di quanto inizialmente pattuito con i produttori. «Quest’anno le cose andranno diversamente», spiega Conconi: «I trasformatori si sono impegnati a ritirare tutte le uve. Un impegno (non scritto) che mette una pietra sopra su quanto accaduto lo scorso anno: «I produttori e i trasformatori hanno deciso di mantenere gli 800 grammi al metro quadro per le uve merlot; 1 chilo per tutti gli altri vini rossi e 1,2 chili per le uve bianche. I trasformatori ritireranno dunque l’intero raccolto pagando le uve 4 franchi al chilo». Il prezzo è stato fissato nelle scorse settimane.
Un buon accordo raggiungo anche alla luce delle vendite del 2020. «Tutto sommato, nonostante la pandemia, il mercato in Ticino ha retto il colpo. Quello che non è stato venduto nella ristorazione è stato infatti assorbito dalla grande distribuzione, anche perché per diversi mesi non si è potuto andare a fare la pesa all’estero». I vini ticinesi, nella grande distribuzione, hanno incassato un incoraggiante +16%, chiosa Conconi.


Se non vendi, non incassi
Cresce, dunque, la quota di vino ticinese venduto nella grande distribuzione ma non abbastanza per risolvere o attenuare il problema delle giacenze: «Nonostante l’intervento della Confederazione - che lo scorso anno ha approvato in collaborazione con i Cantoni una misura di sgravio del mercato dei vini svizzeri, declassando 7,1 milioni di litri di vino DOC in vino da tavola - le cantine svizzere e ticinesi non si sono particolarmente alleggerite. Le riserve, in Ticino, sono passate da 34 mesi (nel 2020) a 33 mesi (nel 2021)».
Una situazione sostanzialmente stabile dunque (su cui non ha influito neppure la piccola vendemmia del 2020) che alla lunga, però, potrebbe rischiare di intaccare la solidità delle aziende. Ovvero: se non vendi non incassi, con tutti i problemi di liquidità che possono seguire.
Il bicchiere mezzo pieno
Insomma, occorre trovare nuove soluzioni per liberare gli stock: «Dobbiamo bere di più», ride Conconi. Scherzi a parte, da anni il vino è un mercato che soffre di un progressivo calo dei consumi. E questo nonostante continui ad essere la bevanda alcolica preferita dagli svizzeri. Secondo il rapporto dell’Ufficio federale di agricoltura, nel 2020, in Svizzera, sono stati consumati 240 milioni di litri di vino (svizzero ed estero), in calo rispetto al 2019 di circa 15 milioni di litri (-5,9%). Un trend che prosegue da oltre 20 anni. Nel 2000 il consumo annuale pro capite ammontava infatti a 52 litri. Come mai? Ancora Conconi: «Ci sono diversi fattori. Oggi si tende a bere principalmente nelle grandi occasioni e non più quotidianamente. I giovani si avvicinano al vino tendenzialmente più tardi rispetto a una o due generazione fa».
Questione di budget
E poi ci sono le ragioni economiche: «Il vino ticinese per una parte della popolazione è fuori budget. In termini di rapporto qualità/prezzo il vino indigeno è sicuramente competitivo, ma sui primi prezzi d’importazione la battaglia è persa». In particolare, nel totale delle importazioni, sono i vini italiani (42,6%) a primeggiare. Seguono i francesi (21,7%), gli spagnoli (15,0%) e gli americani (6,5%). Come intervenire, dunque, su questa concorrenza? La ricetta, suggerisce Conconi, potrebbe essere «bere meno, ma bere meglio». Un messaggio che Ticinowine cerca di promuovere da diversi anni e che lentamente sta passando tra i consumatori. La fetta di mercato di vino svizzero sul totale di quello consumato negli ultimi anni sta infatti crescendo. Nel 2020 la quota di vino rosso svizzero è salita a 39,5% (+2,5%). Non abbastanza, però, per assorbire la produzione indigena. Il problema delle giacenze è destinato a durare ancora a lungo.
«La monocoltura del merlot rischia di penalizzare il mercato»
«Le normative più severe in materia di alcol, così come la pandemia sono sicuramente all’origine del calo dei consumi. Credo, tuttavia, che si possa aggiungere anche il fatto che in Ticino siamo piuttosto monotematici nell’offerta, nel senso che la stragrande maggioranza di viticoltori produce uve merlot. Un vino sicuramente pregiato – coltivato con fatica e passione - ma che occupa la stragrande maggioranza del mercato indigeno. Il rischio di una possibile saturazione del mercato è reale». A parlare è il presidente di Slow food Ticino, Franco Lurà. A lui chiediamo un parere sul decennale calo dei consumi cui il Ticino e il resto della Svizzera devono far fronte. «Potrebbe valere come spunto l’idea di variare maggiormente il prodotto puntando, magari, anche su vitigni alternativi». Uno spunto che Lurà mette in relazione a quella che potremmo definire una nuova tendenza che sta prendendo piede in Ticino come nel resto del Paese, ovvero la richiesta di vitigni che non richiedono l’impiego di prodotti chimici. «Sia chiaro», chiosa Lurà, «con il merlot tutto avviene nel pieno rispetto dei parametri di sicurezza ma è pur vero che si assiste a una sensibilità nuova che chiede sempre più prodotti alternativi».
Che dire invece del fatto che spesso troviamo sulle carte dei ristoranti diversi vini d’importazione e che lo spazio dedicato a quelli ticinesi a volte è davvero minimo? «In generale, nel vino come in tutti i prodotti, tendo a privilegiare il locale e il minor consumo di chilometri nel trasporto. Tuttavia, limitando l’offerta a un solo vitigno, credo che non si faccia un reale favore al consumatore. Non dobbiamo demonizzare l’acquisto e la vendita di vini esteri. Il locale va certamente privilegiato, nel rispetto però di una scelta che deve poter attingere a un ventaglio il più possibile aperto, nel segno della ricchezza, della varietà e del rispetto dei metodi di produzione».