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Le pennellate di Mario Agliati sulla Lugano della gente comune

C’era tutta la Lugano che lo amava lunedì 4 aprile alla Biblioteca cantonale della città, per l’inaugurazione della mostra dedicata allo scrittore a cento anni dalla sua nascita e a poco più di dieci dalla scomparsa
©CdT
Carlo Silini
23.04.2022 06:00

C’era tutta la Lugano che l’amava - i professori con cui ha lavorato, i numerosi allievi e conoscenti - lunedì 4 aprile alla Biblioteca cantonale della città, per l’inaugurazione della mostra dedicata a Mario Agliati («Ul gir da la Lüzzina») a cento anni dalla sua nascita e a poco più di dieci dalla scomparsa. Un’esposizione da visitare e un’occasione per raccontare la sua arte di meticoloso e affabile narratore delle piccole cose: come storico, come scrittore, come giornalista e - sorpresa - come pittore.

Eccolo lì, l’uomo che irrompe tra i vicoli sulle due ruote, di sera, uno che – con quella barbetta – forse gli somigliava pure, a Mario Agliati, e invece la tempera si intitola «La bicicletta di Giovanni Pascoli». E di colpo capisci che quella scena tranquilla e provinciale è una citazione colta, un riferimento a una poesia del Pascoli («(...) La piccola lampada brilla/ per mezzo all’oscura città./ Più lenta la piccola squilla/ dà un palpito, e va.../ dlin... dlin...»).

Poesia di piccole cose, di gente normale che fa, che va e che chiacchiera. Come i due signori, l’occhialuto coi cappelli ritti e l’allampanato calvo dal naso importante, che conversano sul quai di Lugano (un’altra tempera di Agliati) e forse discutono di un articolo del giornale tenuto in mano dal primo. Due tizi colti nelle loro peculiarità fisiche e le loro precise posture, proprio davanti alle inconfondibili ringhiere che costeggiano il lungolago.

«Sgombriamo il campo da un equivoco forse incoraggiato dallo stesso autore», ha esordito il giornalista e critico d’arte Dalmazio Ambrosioni introducendo la serata, «Mario Agliati non si è cimentato nella pittura. Semplicemente è stato anche pittore».

Per Mario Agliati era un’abitudine di vita – dipingeva già da ragazzo e l’ha fatto fino a 4 giorni dalla morte –, un’attività i cui frutti erano poi destinati ai famigliari e agli amici. Quasi nessuno, al di fuori di quella cerchia, sapeva che oltre ad essere uno scrittore e uno storico, Agliati disegnava e dipingeva assiduamente. Se ne parlava poco (e con discrezione) o per nulla. Un semplice passatempo, quindi?

Dalmazio Ambrosioni non è affatto d’accordo: «L’equivoco che si trattasse d’una componente episodica o hobbistica è chiarito dalla documentata continuità con la quale si è espresso con lo schizzo, il disegno e la pittura». Anche perché l’arte Agliati ce l’aveva nel sangue, se così si può dire.

Il padre Carlo era pittore-artigiano. Nel romanzo autobiografico L’erba voglio, Mario ricorda la predilezione paterna per Raffaello e «per parecchi altri di qui che avevan il suo memore culto, il Barzaghi, l’Anastasio, il Monteverde, il Preda, da lui conosciuti» e le peregrinazioni insieme al genitore «fin negli angoletti (del) nostro cimitero, dove spesso andava a lavorare, per iscrizioni sulle lapidi, o verniciature di croci e di ringhierucce».

Gli amici artisti

L’autore de La storia del Corriere del Ticino ha avuto contatti precoci e frequenti col bel mondo dell’arte luganese e ticinese: tra gli altri con Giuseppe Foglia, Luigi Taddei, Aldo Patocchi, Felice Filippini, Carlo Cotti, Mario Marioni, Tita Calvi, Bruno Morenzoni, Ubaldo Monico, Pietro Salati e altri.

Con alcuni artisti ha anche stabilito importanti sodalizi culturali. In particolare con Emilio Rissone (1933-2017), a cui aveva fatto illustrare un suo piccolo libro dal titolo Il mio Bartali.

L’arte, però, non era solo un interesse passivo, da infervorato ammiratore esterno, come attestano le infuocate campagne a difesa del patrimonio locale (per esempio, per la conservazione della chiesetta di San Carlo in via Nassa). L’arte era il suo linguaggio. Provate a leggere le sue pagine, colme di descrizioni minute di ambienti e individui, per rendervene conto. Un esempio? La descrizione del fabbro Santino, sempre ne l’Erba voglio: «Piuttoto magro, e di pelle scura, olivastra e quasi anzi tabaccosa, nerissimo di capelli, e coi baffi che venivan a formare tra la bocca e il naso quasi una pennellata di quel lucido allora famoso detto “Ras”, d’uno sguardo insieme vivido e mogio, ho in mente il Santino per il suo spirito ambrosianamente bonario (...)». Non è un dipinto di parole? È per questo, probabilmente, che per Ambrosioni «in Mario Agliati, parola, scrittura e pittura si sono intrecciate in un dialogo costante e sotterranea collaborazione».

Mario Agliati dipingeva luoghi e lo faceva bene, con tonalità tenui e pastellate, i colori della memoria, come nei paesaggi lacustri o montani nella pagina accanto. E dipingeva persone, come nel ritratto della madre del 1947, utilizzando spesso il tratto del caratterista. In questa veste il suo atelier era la strada, la piazza, il bar. A molti è capitato di vederlo seduto in disparte in Biblioteca cantonale (la sua seconda casa) o nella caffetteria dell’Epa in via Nassa, chino su un foglio col lapis o la bic nera. Non erano scarabocchi: erano ritratti di «vip» nostrani o, più spesso, di gente comune immortalata nella propria quotidianità: commessi, studenti, avventori del bar. Così nascevano le sue cartoline (diverse delle quali in mostra ora a Lugano) che poi spediva agli amici. Ma anche i «quadernetti» di piccole dimensioni (11 x 17) a cui si è dedicato soprattutto negli anni della pensione.

Istantanee di vita

Compilati dalla metà degli anni Novanta – ha spiegato Giovanni Bolzani che li ha studiati a fondo – i quadernetti raccontano i luoghi del suo cuore: Lugano, naturalmente, ma anche Madrano, vicino ad Airolo dove aveva una casa, e Andora, in Liguria, dove trascorreva parte delle vacanze estive. Colpiscono le «istantanee» della gente in coda alla Posta centrale, sul treno o al mercato. «Un gran teatro della commedia umana», ha commentato Bolzani, nella sala Tami stracolma. Se, per assurdo, quell’evento fosse avvenuto vent’anni fa in memoria di un altro illustre luganese e non fosse stato chiamato lui a parlarne, c’è da scommettere che da qualche parte, in un angolo, l’avremmo visto col suo taccuino intento a fermare su carta una brillante serata di vita della città.

Un rapporto molto stretto con il Corriere

Il nome di Mario Agliati è intimamente connesso alla storia del nostro giornale per almeno due ragioni: anzitutto per i numerosi articoli che vi ha scritto nel corso di decenni, in secondo luogo perché è alla sua penna che si devono i due ponderosi volumi de «La storia del Corriere del Ticino» (2003), la sua opera di maggiore impegno (1581 pagine a due colonne e 250 immagini fuori testo), come ha scritto Graziano Papa in un contributo pubblicato sul volume Una presenza discosta, ed. del Cantonetto, 2012, a cura del figlio Carlo.

Il primo articolo di Mario Agliati per il CdT data del 18 maggio del 1946, quando il direttore era Vittore Frigerio: viene pubblicato nella «Pagina letteraria», si intitola «Un racconto storico di Antonio Caccia» e fa riferimento a uno scritto tardo risorgimentale del dottore morcotese: «Il Castello di Morcote, dispotismo o libertà». L’ultimo risale invece al 29 settembre 2001: è apparso sul settimanale del CdT eXtra e s’intitola «Poesia e magia della Valle D’Aosta».

La sua attività di giornalista è attestata anche nella mostra che gli è stata dedicata alla Biblioteca cantonale di Lugano, dove spiccano alcuni suoi articoli nel CdT su Guido Calgari, sul suo maestro Piero Bianconi, su Francesco Chiesa e sull’amico Romano Amerio.

I redattori più anziani del giornale ricordano ancora Mario Agliati nei corridoi del giornale, assieme all’inseparabile coaudiutore Silvio Lafranchi, col quale compulsava le vecchie raccolte del CdT per realizzare la sua monumentale storia, commissionatagli da Matilde Bonetti Soldati e da Sergio Caratti. Dieci anni di ricerca meticolosa e di scrittura (1992-2002) lavorando su circa mezzo milione di pagine del Corriere, sfociati in 18 capitoli che ripercorrono le edizioni dal 1891 al 1997 e presentano le dieci figure dei direttori che ne hanno assunto la guida in quel lungo arco di anni.

«La storia del Corriere era il suo sogno perché, fondamentalmente, era la storia di Lugano», ci spiega il figlio Carlo Agliati. E infatti, l’occhio attento di suo padre non si limitava a descrivere cent’anni di «Corrierismo», ma a raccontare l’evolvere delle vicende politiche cantonali e federali «sulla scorta di una selezione di documenti significanti» annota ancora Papa. Nei due libroni dall’impostazione fortemente narrativa, Agliati ricostruisce filologicamente la storia del giornale nei suoi rapporti con il resto della società e nelle sue dinamiche politico-culturali interne. Un filtro, il giornale, per raccontare anche un secolo di storia del Ticino.

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