Il commento

L’erba che voleva Mario Agliati

La Lugano raccontata dallo scrittore forse c'è ancora, a saperla spogliare, mentalmente, dalle sovrastrutture che si sono aggiunte e sostituite a quelle della Città del buon tempo
© CdT/Archivio
Carlo Silini
23.04.2022 06:00

Chissà quale erba voleva Mario Agliati, mentre scriveva L’erba voglio - formidabile prova di narrativa urbana autobiografica - e ricostruiva, pagina dopo pagina, il mondo della sua infanzia felice tra il quartiere del Forte e quello di Molino Nuovo, in una città viva, intima e nostalgica – con le sue edicole, le sue osterie popolari, i suoi personaggi pittoreschi - che oggi non c’è quasi più. O forse c’è ancora, a saperla guardare con un occhio attentissimo e indagatore qual era il suo. Anzi, meglio: a saperla spogliare, mentalmente, dalle sovrastrutture che si sono man mano aggiunte e sostituite a quelle della Lugano del buon tempo, per citare un altro suo fortunatissimo volume. Sì, Mario Agliati voleva indietro l’erba impossibile di una città che stava scomparendo sotto i suoi occhi, il grande borgo dove tutti si conoscevano, il grosso e antico villaggio che si allargava e si allargava, cambiando pelle prima di diventare una vera, un po’ anonima, città. Non tanto o non solo per i palazzi, le chiese e i monumenti che via via venivano sacrificati alle esigenze della speculazione edilizia, ma soprattutto per una mentalità «sostitutiva» che prendeva il sopravvento negli anni delle sue infuocate battaglie. Nuove costruzioni e nuove idee soppiantavano il mondo nel quale era cresciuto, non sempre in meglio. Piano piano è arrivato un modo diverso di considerare la realtà luganese, in parte ombelicale e autoreferenziale, in parte snobisticamente identificata alla facoltosa piazza finanziaria – più salotto che paesotto - dimenticando la forte radice popolare (e lombarda) della città.

Non lo immagineresti così combattivo, Mario Agliati, se ti limitassi ad osservare i suoi pastelli e le sue poco note opere pittoriche, alcune delle quali esposte in questi giorni alla Biblioteca cantonale di Lugano, per ricordare che se fosse ancora tra noi avrebbe cent’anni (ne parliamo nel CorrierePiù di oggi). Sono dipinti dalle tonalità tenui, delicate e sognanti sia che rappresentino paesaggi ticinesi, sia che mettano in scena il gran teatro dell’umanità luganese, gente comune in fila alla Posta centrale, avventori della mitica cafeteria dell’Epa, ragazzi con le gambe accavallate mentre studiano in biblioteca (la sua seconda casa). Ma tanto il suo carattere era mite e discreto (una presenza discosta, parafrasando il titolo del volume a cura del figlio Carlo, apparso nel 2012, a un anno dalla scomparsa), tanto la sua penna si faceva battagliera quando scendeva in campo per proteggere la città, promuovendo con vis polemica – per esempio – la salvezza della chiesetta di San Carlo in via Nassa (operazione riuscita) o del ristorante Venezia che si trovava in un’ala di un antico convento ai piedi della salita Chiattone (operazione fallita, visto che lo storico chiostro colonnato che ospitava il locale venne abbattuto nel 1974).

Vien da chiedersi quali altre battaglie avrebbe fatto e da che parte si sarebbe schierato negli ultimi dieci anni, in un tessuto come quello luganese che si è ulteriormente trasformato e prepara nuovi grandiosi cantieri che ne cambieranno ancora una volta l’aspetto. Non ci riferiamo tanto alla vicenda dell’ex Macello, che ha connotazione soprattutto politica, quanto ad altri edifici nel frattempo scomparsi senza tanto can can. Impossibile dirlo con certezza. Perché Agliati amava la tradizione, ma non era un «passatista», bensì un «moderno all’antica», come ricorda lo storico Antonio Gili in un contributo nel bel volumetto Ul gir da la Lüzzina. Allo stesso tempo, parole sempre di Gili, gli premeva che a Lugano non si annullasse «ogni traccia di non bancaria civiltà». La Lugano di domani saprà (vorrà) raccogliere la sua eredità morale?