Processo

L’ex funzionario: «Lasciate mia figlia fuori da questa storia»

In coda al dibattimento l’uomo ha preso la parola per la prima volta riguardo alla sua vicenda, scagliandosi contro «i leoni da tastiera»
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Federico Storni
29.01.2021 15:14

(Aggiornato alle 17.10) Al termine del dibattimento in Appello per il processo a carico dell’ex funzionario del DSS, quest’ultimo ha voluto esprimersi per la prima volta riguardo alle polemiche suscitate dalla sua vicenda, e per lanciare un appello «ai leoni da tastiera»: «Lasciate mia figlia fuori da questa storia».

L’uomo, oggi pensionato, ha esordito sottolineando quanto, non tanto il processo in sé, ma il risalto che se n’è dato da parte della politica (e di riflesso dei giornali, che la politica la raccontano), gli abbiano cambiato la vita: «Questo caso ha distrutto il mio passato e il mio presente, e non avrò un futuro. Ho perso un lavoro che mi appassionava e che avrei voluto terminare con dignità. Ho perso la famiglia, gli amici». Comunque vada, ha aggiunto, «non mi meritavo di essere sbattuto sulla pubblica piazza, fatto a pezzetti e gettato in un cesso pubblico. Sono stato dipinto come il mostro, mi è stato affibbiato un marchio d’infamia, ma al di là di tutto sono e resto un essere umano».

L’ex funzionario si è spiegato l’accanimento nei suoi confronti per due motivi: l’aver scritto per il «Diavolo» e la sua attività politica. Ha tuttavia definito «fandonie» parte di quanto emerso nel discorso negli scorsi anni. «È passato un secolo da quando scrivevo sul Diavolo. Hanno detto che sono il grande vecchio che gestisce la collettività ticinese, il grande vecchio che gestisce un intero partito. Ma io sono solo vecchio, e da molto tempo non sono iscritto a nessun partito».

Il suo pensiero è però stato rivolto in particolare alla figlia. «Ieri si è insinuato che avrei ricorso per puntiglio, che non c’era bisogno perché avevo ricevuto una pena lieve. Ma l’ho fatto perché ne avevo diritto, perché credo fermamente nella mia innocenza. Se non avessi ricorso mi sarei risparmiato tre anni di insulti e minacce, di telefonate anonime e aggressioni. E ho ricorso per mia figlia. Mi appello ai leoni da tastiera: lasciatela fuori da questa storia, lei non c’entra niente. Trovo disgustoso che nei commenti sotto ai post su Facebook si sia innescato l’odio e non siano state cancellate minacce, allusioni e speranze che a mia figlia succeda il peggio. Ho letto che c’è chi auspica che venga stuprata, violentata, venduta. Che faccia la prostituta per tutta la vita. Lei non c’entra nulla ma dovrà vivere la sua vita circondata dall’odio. E questo non lo posso accettare». Parole puntellate da singhiozzi.

La sentenza della Corte d’Appello e di revisione penale è attesa per i prossimi giorni.

Parola alla difesa

«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato». Stamattina, ha iniziato la sua arringa citando l’incipit del «Processo» di Kafka, l’avvocato Niccolò Giovanettina, difensore d’ufficio dell’ex funzionario del DSS a processo in Appello per coazione sessuale e violenza carnale ai danni di una donna da poco maggiorenne al momento dei fatti, nel 2004. Un’arringa tesa chiedere l’assoluzione del suo assistito e a dimostrare che la versione dei fatti della presunta vittima non è credibile, che essa è stata presa per oro colato nella sentenza di prima istanza, e che il suo assistito è innocente: «Per il Tribunale penale cantonale il racconto della donna è lineare e coerente: ma è uno dei racconti più assurdi che io abbia mai sentito. L’onorabilità dell’ex funzionario non è stata decisa basandosi su un’analisi rigorosa, ma su valutazioni morali che nulla hanno a che fare con il diritto. Se mi avessero detto questa cosa quando ero studente di giurisprudenza, avrei avuto paura».

Per il legale «la sentenza di prima istanza è semplicemente inconcepibile. Lo dico nel disagio del rispetto delle istituzioni. Il giudice (Marco Villa, ndr.) nel momento sacro della lettura della sentenza è andato oltre il suo compito istituzionale, arrivando a scusarsi con le vittime a nome dello Stato. Ma i fatti non sono ancora cresciuti in giudicato, e ciò va contro la presunzione d’innocenza».

Un concetto ribadito da Giovanettina anche in relazione alla «pubblicità» fatta al procedimento: «Di questo caso politica e giornali hanno parlato troppo, male, e senza cognizione di causa. Maldicenza, pettegolezzo e sentito dire si sono sostituiti al rigore del diritto. Ma nessuno di quelli che hanno gridato allo scandalo ha detto la cosa più semplice: i fatti non sono ancora cresciuti in giudicato».

La tesi accusatoria è che l’ex funzionario abbia, tramite minacce e ricatti emotivi (in particolare minacciando di uccidersi se l’avesse lasciato), costretto la donna ad concedergli i favori sessuali che le chiedeva. L’uomo, per contro, ha sempre sostenuto che si sia trattato di una relazione paritaria, malgrado la differenza d’età, e consenziente.

Trattandosi di un processo indiziario, fondamentale nel giudizio per la Corte è valutare la linearità e la credibilità del racconto delle parti. E, secondo Giovanettina, in prima istanza la Corte «ha avallato le tesi fantasiose della donna in una sentenza basata su una censura morale a mio avviso inaccettabile, compiendo valutazioni pesantemente sbagliate. Non ha riscontrato l’elemento coercitivo in 19 episodi su 20, ma crede alla donna». In sostanza, ha argomentato il legale, nel racconto della presunta vittima vi sono troppo contraddizioni perché possa essere creduta. Ad esempio, dopo la fine formale della relazione fra i due a inizio 2004, nei mesi seguenti vi sono agli atti una quarantina di e-mail fra l’imputato e la donna. E-mail in cui lei afferma di non volerlo cancellare dalla sua vita e in cui parla della loro relazione con termini affettivi: «La donna afferma che ha scritto quelle cose perché lui voleva sentirsele dire - ha detto Giovanettina. - Dobbiamo credere che sia tutta un’enorme messinscena? Dobbiamo credere che la presunta vittima aveva la freddezza di subire l’orribile ricatto, scrivergli quello che voleva sentirsi dire, ma poi chiedergli in prestito un computer, o chiedergli di farsi venire a prendere a Lucerna?».

Il legale ha anche contestato che tutti i problemi della donna possano essere ascritti alla relazione con l’imputato: «Ha sofferto prima e dopo aver frequentato il mio assistito. Ha sofferto soprattutto a prescindere da lui».