L'intervista

«L'individualismo e l'egoismo sono i problemi più concreti»

In un mondo afflitto da conflitti e incertezze, diamo la parola all'amministratore apostolico Alain de Raemy - «La Pasqua? Senza la Resurrezione la nostra fede non servirebbe»
©Chiara Zocchetti
Gianni Righinetti
30.03.2024 06:00

Qual è il significato della Pasqua in un mondo sempre più frammentato e complesso, dove i venti di guerra soffiano come non accadeva da decenni? Ne parliamo con l’amministratore apostolico Alain de Raemy, intervistato a «La domenica del Corriere» in onda domani sera alle 19 su Teleticino.

Qual è il significato della Pasqua?
«Senza la Resurrezione la nostra fede non servirebbe. Lo dice anche San Paolo: se Cristo non è risorto, allora la morte rimane morte. Sarebbe la sconfitta dell’amore, e la continuazione perpetua della sofferenza. Con la resurrezione di Cristo noi celebriamo la vittoria del bene sul male, la vittoria sulla morte».

Nel termine «Pasqua» è insito il concetto di «rinascita», che si traduce in speranza. Ecco: in cosa spera Alain de Raemy?
«Nel fatto che Dio ha tutto in mano. Lo ha dimostrato con Gesù: il fatto che sia risorto, significa che c’è una forza più grande di tutto il male. E questo dà speranza a tutto il mondo. Vale quindi la pena investirsi, mettere le forze in campo per aiutare l’umanità affinché abbia un avvenire. Perché in Dio c’è speranza, sempre».

C’è anche chi, provato dalle sofferenze, non crede più nell’avvenire. Che cosa si sente di dire a queste persone?
«Probabilmente in questo momento, ora, in Terra Santa o in Ucraina stanno avvenendo gesti d’amore, di sacrificio per l’altro, di solidarietà. Gesti che scopriremo dopo. Le vite dei Santi e dei martiri, del resto, le abbiamo scoperte a posteriori. In questo momento di grande sofferenza e drammaticità, ci sono degli atti di umanità e cristiana umanità che scopriremo un giorno».

Lei è stato proiettato nella realtà ticinese in seguito alle dimissioni del vescovo Valerio Lazzeri nel 2022. Avrebbe mai pensato di essere ancora in Ticino dopo così tanto tempo?
«Mai. Mi avevano detto che sarei rimasto circa sei mesi».

Con le regole vigenti, non potrà essere nominato vescovo della Diocesi di Lugano. Come vive questo periodo di incertezza, che di fatto limita il suo ruolo?
«È vero, non posso fare tutto ma posso comunque fare tanto. Fare dei cambiamenti, ad esempio. Eppure la condizione provvisoria perdura, non è la condizione ideale. Ma la stragrande maggioranza capisce, collabora e vive il presente assieme a me. È questo l’importante».

La povertà è quando una persona non può vivere degnamente la sua vita umana. Quando manca del necessario

In questi anni ha imparato a conoscere i ticinesi. Quali sono i pregi e i difetti dei cittadini del nostro cantone?
«C’è una caratteristica latina, con un accenno svizzero dettato dalla precisione, del lavoro ben fatto. Accanto, come visto, a un’anima latina della vita. Una buona miscela».

Parliamo di povertà ricchezza. Che cos’è la povertà per monsignor de Raemy?
«La povertà è quando una persona non può vivere degnamente la sua vita umana. Quando manca del necessario. C’è chi gode di tutto, altri invece soffrono in condizioni ingiuste. E la povertà è in aumento anche in Svizzera».

Anche la Chiesa, tuttavia, gode dei beni materiali che possiede.
«Si e no. Ci sono tanti stabili che abbiamo ereditato, doni per creare scuole o ospedali. I beni della Chiesa appartengono quindi alla collettività».

Come fa la ricca Chiesa a parlare ai poveri? Come fa a essere credibile?
«La Chiesa ricca non esiste. Anche internamente alla Svizzera ci sono notevoli differenze. Ad ogni modo, un cristiano deve sempre avere la preoccupazione alla solidarietà. Deve condividere le sue fortune con chi non le ha».

Il vero fedele è colui che la domenica va sempre a messa oppure ci sono altri tipi di fedeli?
«Quando una persona capisce che cos’è la messa, che cosa succede nella celebrazione dell’eucarestia, continuerà ad andare in chiesa. Ma non sono qui per giudicare la vita spirituale delle persone. Abbiamo tutti un’anima, e questa anima vive».

Non sono deserte le chiese. Specie nel periodo pasquale. E sempre più adulti si interessano alla fede

Oggi le chiese sono vuote, talvolta deserte. È colpa degli scandali o c’è dell’altro?
«Non sono deserte le chiese. Specie nel periodo pasquale. E sempre più adulti si interessano alla fede. Malgrado tutto ciò che è successo all’interno della chiesa stessa a causa degli scandali».

Che cosa bisogna fare per avvicinare più persone alla Chiesa?
«Essere gratuitamente presenti fra la gente, a livello comunale, di paese. Interessarsi della gente nei momenti comunitari. Il nostro essere cristiani ci apre automaticamente agli altri».

Apriamo un capitolo delicato, quello legato alla pedofilia. Questi scandali rimarranno sempre come la vergogna più grande per la Chiesa?
«È sempre una vergogna quando la persona che soffre non viene accolta. Io non rimprovero chi è vissuto nel passato, in un altro contesto, in un’altra cultura, anche in ambito sessuale. Ciò che sorprende è che la fede cristiana, il messaggio di Cristo, è sempre rimasto lo stesso. Anche in altri contesti era conosciuto dai credenti…Bisogna dunque avere tanta cura di adattarsi al Vangelo, al messaggio di Gesù. Ascoltarlo di più».

Una volta il concetto di omertà era bi-direzionale? Sia da parte della Chiesa, sia da parte della società?
«Credo proprio di sì. Da parte della Chiesa, avendo come base il vangelo, certe cose sono state inaccettabili. È stata la stessa Chiesa svizzera a chiedere all’Università di Zurigo di far luce su queste situazioni. Abbiamo preso noi l’iniziativa, ma non avevamo i mezzi per farlo. Dunque ci siamo affidati ad esperti».

Come ha vissuto durante quei giorni, quando il rapporto è stato divulgato?
«In altri Paesi questi studi erano già stati fatti. Ci aspettavamo dunque qualcosa di simile. Ma dall’altra parte è sempre scioccante il fatto concreto, la persona che è stata abusata da una persona consacrata».

Non è mai esagerato scoprire i fatti. Si tratta di documentazioni, fatti storici. Ma la cosa più importante, una conseguenza di questo rapporto, è che chi è stato vittima di abusi in passato, oggi può parlare

Qualcuno ha giudicato «esagerate» le conclusioni del rapporto.
«Non è mai esagerato scoprire i fatti. Si tratta di documentazioni, fatti storici. Ma la cosa più importante, una conseguenza di questo rapporto, è che chi è stato vittima di abusi in passato, oggi può parlare. Si sente libero di farlo. Almeno è questa la nostra intenzione».

Il Corriere del Ticino ha esposto una testimonianza di una di queste persone che hanno dovuto soffrire. Come ha vissuto quella testimonianza?
«La verità ci renderà liberi, dice Cristo. Sono rimasto contento che questa persona abbia testimoniato. Perché può essere di aiuto per altri».

Possiamo dire che per la Chiesa c’è stato un prima e un dopo in seguito al rapporto sugli abusi?
«Dal punto di vista mediatico sì. Anche se già prima avevamo cominciato a lavorare e a dare una risposta alle sofferenze di queste persone».

Come può garantire la Chiesa che certe cose non accadano più?
«È la grande sfida. La grande sfida della verità, anche rispetto alla vocazione. Dobbiamo davvero essere sicuri che questa persona sia quella giusta. La pedofilia è una malattia: dobbiamo essere molto attenti e scegliere con cura chi accogliere per una vita consacrata. È una questione di fiducia, perché questi preti, religiosi o laici, poi andranno nelle comunità

Che cosa ne pensa del celibato dei parroci?
«Dico sempre a mo’ di provocazione che è stata colpa di Gesù. È stato lui a vivere il celibato, in un contesto che non era per nulla favorevole a questo. Essere celibe era una sconfitta. Lui, invece, vive questa nuova condizione. È un modo per essere in tutto e per tutto per gli altri. Non ci sono altre priorità».

Per me il celibato è una cosa bella, grande, tanti uomini di chiesa sono stati d’esempio in questo

È un dogma, quindi?
«No, non lo è. Si tratta di una disciplina interna alla Chiesa. In Oriente, tra l’altro, esistono parroci cattolici sposati».

Mi faccia capire: su questo aspetto lei sarebbe aperto a un cambiamento?
«Per me il celibato è una cosa bella, grande, tanti uomini di chiesa sono stati d’esempio in questo. È una ricchezza così grande che anche papa Francesco ha detto ‘‘non tocca a me cambiarlo’’».

Ha citato papa Francesco. Riusciremo a trovare sempre un Santo padre come lui?
«La sua grandezza viene anche dal celibato. È una ricchezza che rende fertile il suo Ministero».

Qual è il suo rapporto con i parroci ticinesi?
«È buono. Chiedono tante volte di accogliermi nelle rispettive parrocchie, perché sono orgogliosi di mostrarmi le loro comunità. Purtroppo non posso essere ovunque. Io sono sempre a disposizione, e per questo ci ritroviamo 4-5 volte all’anno per delle giornate di incontro e di scambio».

In questi mesi si è parlato del periodo inquieto che vive la Chiesa. Cosa la preoccupa maggiormente di questa realtà?
«Tanti sono gli aspetti. È la situazione del mondo che preoccupa, ma ogni fedele può aiutare a cambiare in meglio le cose. L’individualismo e l’egoismo sono tra i problemi concreti. Un’apertura spirituale aiuta».

La Chiesa non è una setta, è una realtà all’interno della società

Le difficoltà della Chiesa sono le stesse dei cittadini?
«Sì, viviamo la stessa realtà, con le medesime difficoltà. La Chiesa non è una setta, è una realtà all’interno della società».

C’è poi la scienza, cosa ne pensa?
«Viviamo un’epoca affascinante i progressi anche con l’intelligenza artificiale ci interrogano costantemente su cosa significhi essere uomo. Sono grandi sfide da cogliere».

Di questa nuova frontiera tecnologica ha parlato anche papa Francesco. Non vede il rischio, se penso alla dimensione ecclesiastica, di cancellare la capacità umana?
«Questo rischio esiste, ma essenziale è mantenere la capacità umana, senza la quale anche l’intelligenza artificiale non sarebbe nata. Se l’uomo non ci mette il cuore, la scienza non aiuta».

Già che parla di cuore, in cuor suo pensa di diventare un giorno Vescovo a pieno titolo?
«Mi sto avvicinando ai 65 anni, l’età della pensione, auspico di potere un giorno avere meno da fare, ove sia. Ma spetta al Papa decidere. Con i 75 anni c’è il dovere di presentare le dimissioni come Vescovo».

Ci sta dicendo che avrebbe troppo poco tempo per fare il Vescovo?
«No, non stavo parlando di Lugano. Era semplicemente una descrizione delle regole per ogni vescovo. C’è di buono che su questa decisione, io non c’entro!».

Cosa le mancherebbe del Ticino se dovesse partire?
«I contatti e le amicizie. Ma sono abituato, ho capacità di adattarmi e non ho mai avuto rimpianti nelle varie tappe della mia vita ecclesiastica».