Medicina

L’ospedale spiegato con un orsacchiotto

Quasi quattrocento i bambini coinvolti nel progetto Teddy Bear Hospital Ticino alla Clinica Sant’Anna di Sorengo - Il racconto di chi li ha seguiti da vicino
Quasi quattrocento bambini hanno «invaso» in questi giorni la Clinica Sant’Anna. (Foto Putzu)
Giuliano Gasperi
14.02.2019 06:00

SORENGO - Sono entrati con un po’ di timore negli occhi e un peluche stretto fra le braccia. Quando sono usciti – assicura chi c’era – erano sorridenti. Parliamo dei quasi quattrocento bambini giunti in questi giorni alla Clinica Sant’Anna di Sorengo con le loro scuole o con la famiglia per partecipare al progetto Teddy Bear Hospital Ticino – che si concluderà domani – nato con l’obiettivo di avvicinare i piccoli dai 3 ai 6 anni al mondo della sanità e far passare loro la paura dell’ospedale. È molto più di una semplice visita guidata ad una clinica. L’idea è quella di coinvolgere i bambini nelle attività tipiche di un ospedale chiedendo loro di «aiutare» i medici a curare il loro amico di pezza: il peluche. Affiancati da una trentina di studenti di medicina, i piccoli hanno vissuto l’esperienza della sala d’attesa, del dialogo con il dottore sui possibili malanni dell’orsacchiotto, della radiografia, della sala operatoria e della prescrizione dei farmaci, per far capire loro che non sono caramelle. «Sapevamo che alcune di queste cose ai bambini potevano fare paura – racconta Joshua Crivelli, membro dell’Associazione Studenti Ticinesi di Medicina – Penso ad esempio ai macchinari per la risonanza magnetica: un esame che abbiamo simulato mettendo gli orsacchiotti in una lavatrice e chiedendo ai loro piccoli proprietari di lasciarli soli un attimo con noi per scattare una foto speciale. Insieme abbiamo anche fatto una puntura ai peluche, per spiegare che l’ago non è qualcosa che fa male ma che aiuta a far passare il male». In alcuni casi, oltre ad una comprensibile tenerezza, le reazioni dei piccoli hanno suscitato grande sorpresa negli studenti di medicina. «Abbiamo incontrato una bambina con un mutismo selettivo che solitamente non parla con gli uomini e con i medici – racconta sempre Crivelli – Dopo aver fatto il giro dell’ospedale con una compagna e la sua docente ha chiesto di poterlo fare da sola e alla fine, rivolgendosi a noi, ci ha salutato e ringraziato». C’erano anche dei piccoli che hanno vissuto esperienze di gravi malattie in famiglia e che quindi, su questo tema, erano particolarmente vulnerabili. «In questi casi il nostro compito è stato far capire loro che si può guarire e che devono avere fiducia nella medicina». È un bell’allenamento anche per gli aspiranti dottori coinvolti nel progetto. «Un’esperienza nuova – ammette Crivelli – Ho avuto una bambina che per una decina di minuti non mi ha parlato. Non riuscivo nemmeno a farmi dire il nome del suo peluche, né a farle auscultare il cuore dell’orsacchiotto. Ad un certo punto, verso la fine del nostro incontro, si è aperta completamente e ha iniziato a raccontare tutto». Si è sgretolato quel muro comunicativo che s’instaura a volte fra medici e pazienti: un insegnamento prezioso per gli adulti.