L’intervista

Ma torneremo davvero a fare baldoria?

L’avanzare delle vaccinazioni e gli allentamenti annunciati da molti Paesi ci stanno spingendo lontano dalla pandemia e, di riflesso, verso l’agognata normalità – Ma quando tutto sarà finito faremo festa più di prima? Ne parliamo con Mauro Capocci, Dottore di ricerca nonché docente di storia della medicina e storia della scienza all’Università di Pisa
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Marcello Pelizzari
13.05.2021 09:38

Le vaccinazioni avanzano. Di riflesso, le limitazioni diminuiscono. Riaperture, libertà ritrovate, viaggi. Succede. Sta succedendo. In Europa come altrove. In Spagna, ad esempio, l’addio al coprifuoco è stato salutato con feste e assembramenti. Da Barcellona a Madrid. Di più, la voglia di divertirsi è accompagnata da una riflessione. O, meglio, da una domanda: alla pandemia seguirà un periodo di grandi festeggiamenti e baldoria? In questo senso, cosa ci suggeriscono le epidemie del passato?

«Torneremo in strada» afferma senza esitazioni Mauro Capocci, Dottore di ricerca in storia della scienza nonché docente di storia della medicina e storia della scienza all’Università di Pisa. «Certo, il problema è che rimbalzerà l’epidemia. Come l’estate scorsa». Detto ciò, «veniamo da un anno e mezzo piuttosto depressivo. Come dare torto a chi vuole tornare al ristorante o andare in spiaggia? Pensiamo anche ai ragazzi: immaginatevi un liceale o un universitario, che negli ultimi mesi ha dovuto convivere – almeno in Italia – con il confinamento e il coprifuoco. Una roba fuori dal mondo. Io stesso, appena ho potuto, sono andato a mangiare fuori. All’aperto, in sicurezza. Ma ci sono andato».

La peste nera del Trecento ebbe conseguenze economiche e socio-politiche profonde

Cosa ci insegnano le pandemie che si sono succedute nel corso della storia?

«La peste nera del Trecento ebbe conseguenze economiche e socio-politiche profonde. Modificò i fattori in gioco: c’era meno forza lavoro, quindi il costo del lavoro aumentò tantissimo; si ribaltarono equilibri stabiliti da diversi secoli, famiglie che commerciavano lana, seta o spezie dall’Oriente vennero annientate dall’epidemia e si liberò spazio per nuovi concorrenti; operai e contadini diventarono molto più ricercati e non subirono più il ricatto della disoccupazione, ottenendo anche paghe migliori; le terre rimaste incolte vennero adibite a pascolo».

La peste nera fu seguita da una forte crescita economica. Come cambiarono i rapporti di ricchezza?

«La ricchezza globale, diciamo, rimase uguale a prima ma cambiò in rapporto alle persone. Faccio un esempio: la stessa ricchezza X, poniamo a Firenze, prima della peste era nelle mani di cento persone mentre dopo quattro anni era detenuta soltanto da sessanta persone. Chi sopravvisse, poi, cominciò a vestirsi meglio, a mangiare meglio e via discorrendo. Ma ne beneficiarono anche le classi più basse, come i semplici lavoratori che guadagnarono di più. Il coronavirus, per contro, ha modificato altri rapporti ma sempre legati al mondo del lavoro. La centralità dell’ufficio, per dire. Sappiamo, tuttavia, che alcune trasformazioni in atto – come la forte spinta verso la digitalizzazione – sono guidate da imprese e interessi privati. E non sempre tutto ciò va di pari passo con l’interesse del bene pubblico».

In passato, le pandemie furono anche una piattaforma per studiare nuove forme di controllo. Un discorso ancora attuale, giusto?

«È una lezione che apprendiamo proprio dalla storia. Pensiamo alle quarantene o ai documenti di viaggio, strumenti che vennero introdotti nel XIV secolo e che abbiamo reintrodotto adesso, con la pandemia da COVID-19. Pensiamo alla mobilità delle persone, anche all’interno della stessa nazione, limitata con la scusa dell’emergenza sanitaria. Parliamo di strumenti che rimarranno? Io, singolo cittadino, dovrò sempre girare con un passaporto vaccinale o ad un certo punto potrò abbandonarlo? Quanti e quali privilegi mi darà, inoltre, questo documento? E ancora: questi dispositivi aumenteranno le disparità già esistenti? In Italia come in Svizzera, dati alla mano, a breve tutti coloro che lo vorranno saranno vaccinati. Potremo vivere e muoverci liberamente all’interno dello spazio europeo. L’accesso alle vaccinazioni, però, è diverso in Paesi come la Tunisia, l’Algeria o il Burkina Faso, ma anche in Brasile. Perciò, un passaporto deciso per ragioni prettamente epidemiologiche potrebbe diventare anche uno strumento di controllo restrittivo per le migrazioni delle persone dai Paesi più poveri ai Paesi più ricchi. La differenza fra ricchi e poveri, con la pandemia, può diventare ancora più profonda».

Già in passato venivano organizzate grandi processioni o si costruivano chiese per segnare la fine di un’epidemia

Quindi?

«Quindi noi fortunati, da un lato, torneremo a festeggiare. Già in passato venivano organizzate grandi processioni o si costruivano chiese e santuari per segnare la fine di un’epidemia. Festeggeremo, sì, magari godendoci il rialzo delle azioni di Pfizer o AstraZeneca o, ancora, andando semplicemente al ristorante. D’altro canto, però, sappiamo che dovremo fare attenzione ad alcuni aspetti delle nostre democrazie».

Lei insegna all’Università di Pisa. Come immagina il futuro del suo ateneo e, in generale, della scuola?

«Molti colleghi, in parte anche io, sono preoccupati che questa nuova normalità perduri nel tempo. Che, insomma, si sostituisca al sistema di insegnamento precedente. Abbiamo notato che, mancando il discorso in presenza, molti hanno scelto le Università di tradizione. Altro esempio: uno studente può tranquillamente iscriversi a Milano o a Torino ma continuare a vivere al sud, dove è nato e cresciuto. Evitando quindi di trasferirsi e di spendere per vitto e alloggio. Pisa, dove insegno, si regge tantissimo sull’indotto che generano docenti e soprattutto studenti. La città saprebbe sopportare un altro anno di didattica quasi esclusivamente a distanza? Chi affittava appartamenti agli studenti, i bar, i locali: come sopravviveranno? Le Università dovranno prendere decisioni importanti in questo senso, sul medio periodo. La domanda, allora, è: sceglieranno un atteggiamento votato all’ottimismo, rassicurate dalle vaccinazioni, oppure opteranno per la prudenza? O, ancora, saranno obbligate dai vari Governi a essere prudenti? Come storici, sarà interessante vedere gli sviluppi futuri».

Negli ultimi vent’anni, grazie alle compagnie aeree low cost, ci siamo mossi tutti tantissimo

È cambiata, durante la pandemia, anche la mobilità delle persone. Cosa dice il passato al riguardo?

«Negli ultimi vent’anni, grazie alle compagnie aeree low cost, ci siamo mossi tutti tantissimo. Molto di più della generazione precedente. Io avrò preso venti volte gli aerei che hanno preso i miei genitori, che pure avevano viaggiato tanto. Ora, beh, da un anno e mezzo siamo quasi tutti fermi. I treni sono vuoti, l’aviazione è in crisi. È tipico della storia, ad ogni modo, studiare i cambiamenti a livello di mobilità. E capire, ad esempio, perché determinate strade di comunicazione vengono interrotte: è perché lo decidono i governi o perché le persone hanno paura a muoversi? Se, limitazioni permettendo, voglio tornare a Londra sono quasi obbligato a prendere l’aereo. Ma nella mia città, al posto dell’autobus, posso scegliere la bicicletta, il monopattino o l’automobile privata. Un’azienda di trasporto pubblico, però, che si basa anche sull’acquisto di biglietti, come può pensare di campare? È una situazione molto complessa. Tornando alla domanda iniziale, posso dire che festeggeremo la fine della pandemia ma non è detto che torneremo subito anche alla normalità».

All’influenza spagnola seguirono i cosiddetti Roaring Twenties, ovvero gli anni ruggenti, un’epoca di liberazione per certi versi cafona e di forte espansione economica e culturale. C’è un nesso fra le due cose?

«Non credo che quell’epoca sia stata determinata solo dalla fine dell’influenza spagnola. È vero, il mondo uscì da una pandemia ma uscì, soprattutto, da una guerra devastante. La Grande Guerra. Era la prima volta che si verificò un evento di quel tipo su così larga scala. Le nazioni più ricche e potenti del mondo, come la Germania e la Francia, soffrivano la fame. Tutti i Paesi, tolti gli Stati Uniti, durante il confronto bellico patirono privazioni inaudite. Il coinvolgimento della società fu senza precedenti, sebbene quella fosse ancora una guerra di soli eserciti. Ma il costo del conflitto generò una devastazione sociale ed economica molto più ampia e profonda delle guerre precedenti, che magari mandavano in bancarotta i Governi ma che raramente coinvolgevano l’intera popolazione. La spagnola fu un problema sotto altri punti di vista: ad esempio, la risposta dell’Italia fu lenta perché la sanità militare non diceva a quella civile cosa stava succedendo davvero nell’esercito. Detto questo, mi piacerebbe assistere a una sorta di rinascimento dopo il coronavirus. In parte c’è già, penso a romanzi e film in cui viene descritto questo nuovo ambiente in cui viviamo. Un’esperienza che ha riguardato tutti e, quindi, è stata totale. Non riesco, comunque, a trovare un collegamento così diretto fra la fine dell’influenza spagnola e l’inizio degli anni ruggenti».

La peste nera ebbe un impatto assolutamente fuori scala rispetto al coronavirus

È corretto paragonare questa pandemia a quelle passate? La peste nera, se ragioniamo solo in termini di morti, fu devastante: uccise un terzo della popolazione europea dell’epoca.

«La peste nera ebbe un impatto assolutamente fuori scala rispetto al coronavirus. Questa pandemia però ha colpito l’umanità anche sul piano delle abitudini, che davamo per scontate. La mobilità, il fatto di potersene andare in giro o al ristorante e via discorrendo. Siamo rimasti chiusi in casa, quando l’Occidente si è sempre distinto per uno spiccato senso di libertà. In altre epoche tutto ciò sarebbe stato vissuto con meno trasporto emotivo: non c’erano gli aerei, le persone avevano meno contatti e un singolo villaggio poteva rappresentare l’intero mondo. Quello che ci ha colpito, se parliamo di COVID-19, è la limitazione degli spazi. È una cosa che percepiamo contro natura, se pensiamo agli ultimi decenni e alla libertà di movimento che ci garantiva ad esempio Ryanair. I mezzi di trasporto come gli aerei avevano azzerato alcune distanze, per cui era possibile fare un fine settimana in Lituania senza troppi pensieri. La peste nera aveva bloccato alcune vie di commercio, ridotto i movimenti. Ma un contadino del Trecento poteva comunque continuare a fare la vita di prima. Ci furono, appunto, cambiamenti profondi perché la popolazione venne colpita in termini numerici. Il coronavirus, oltre a generare vittime, ha scatenato timori emotivi e culturali. Torneremo a viaggiare senza paura? Quanti di noi limiteranno gli spostamenti per una sorta di depressione post COVID-19?».

Il tema dei confini, affrontato anche sulle colonne del Corriere del Ticino, da marginale è tornato centrale. Il concetto di Europa resisterà alla pandemia?

«È una domanda che si riallaccia al discorso affrontato in precedenza. Queste misure di controllo, come il certificato vaccinale, ce le porteremo appresso a lungo? Negli ultimi anni la globalizzazione ha riguardato soprattutto le merci. Poi, è vero, prima della pandemia noi occidentali potevamo muoverci più o meno liberamente grazie ai nostri passaporti. Tante altre persone, però, non godevano delle stesse libertà. Abbiamo sempre visto e considerato lo spazio europeo come libero, fuori invece c’erano già diverse limitazioni in più. Ora si aggiungeranno considerazioni di tipo sanitario. Può darsi che alcuni Paesi vietino l’ingresso a chi non è vaccinato, o impongano quarantene in entrata o altri controlli. Il problema dell’Europa è che ha fallito nel rispondere alla pandemia come un’entità unica. I confini sono stati ristabiliti anche perché ogni nazione ha risposto all’emergenza in maniera e con tempi diversi. È venuto meno il valore aggiunto di essere uno spazio unico. Anzi, sono emerse problematiche importanti. Come i ritardi nelle decisioni e nei contratti per i vaccini o le lentezze dovute al fatto che i singoli Governi europei debbano concordare le decisioni come un Governo unico, senza riuscirci appieno».

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