Manca la cassa acustica, allora dà fuoco alle coperte

Ci sono stati innumerevoli falsi allarme incendio negli ultimi due anni nei Centri federali d’asilo del Mendrisiotto. In un’occasione ben precisa, però, le fiamme sono davvero divampate. Era il 29 marzo dell’anno scorso quando i pompieri sono stati allertati per un incendio al Centro di via Motta. Nessun falso allarme: il fuoco era stato appiccato all’interno di una camera nella quale vengono ospitati i richiedenti l’asilo. Un incendio appiccato volontariamente «per futilissimi motivi». Parole pronunciate quest'oggi davanti alla Corte delle assise criminali di Mendrisio dalla procuratrice pubblica Marisa Alfier. Già, perché in aula, al banco degli imputati, sedeva un 31.enne cittadino algerino colpevole, appunto, di incendio intenzionale, ma non solo. La Corte presieduta dalla giudice Francesca Verda Chiocchetti l’ha anche ritenuto colpevole di ripetuto furto (in parte tentato), ripetuto danneggiamento, ripetuto abuso di un impianto per l’elaborazione di dati, furto d’uso di un veicolo a motore, infrazione alla Legge federale sugli stupefacenti, infrazione alla Legge federale sugli stranieri e ripetuto impedimento di atti dell’autorità. Un elenco di reati, commessi tra Chiasso e la regione di Lucerna, che gli è valso una condanna a 28 mesi di carcere (la metà sospesi per un periodo di prova di 4 anni), oltre all’espulsione dal territorio elvetico per 5 anni. Confermato integralmente, dunque, l’atto d’accusa.
«Ha combinato un disastro»
Dal suo arrivo in Svizzera l’uomo «non è stato con le mani in mano» ha spiegato la procuratrice pubblica durante la requisitoria. Il primo arresto, come anticipato, risale al marzo del 2022, quando appiccò l’incendio nella sua camera del Centro federale d’asilo. Il motivo del suo agire? «Voleva attirare l’attenzione affinché il personale della struttura ritrovasse la sua cassa acustica» ha ricordato l’accusa. «Ha combinato un disastro» anche perché, a quell’ora, nel centro c’erano circa 120 persone. Attenzione attirata ammucchiando coperte e vestiti prima di accenderli con un accendino. Fortunatamente, è stato riconosciuto in aula, l’incendio è stato domato dai pompieri e il bilancio finale ha presentato 4 persone lievemente intossicate. Una volta scarcerato l’uomo – che nel frattempo si è visto respingere la domanda d’asilo – è stato trasferito in una struttura del canton Lucerna. Cantone nel quale si sono susseguiti gli altri reati, in parte contestati dalla legale della difesa Debora Deias. In parte, come detto, perché il 31.enne ha ammesso furti, danneggiamenti, l’utilizzo di carte di credito rubate e il consumo di cocaina. Un comportamento che ha portato l’accusa a dire che «l’imputato ha continuato a delinquere nel Paese che lo ha ospitato. Non ha mai smesso». Per questo motivo, Alfier ha chiesto che l’uomo venisse condannato a 28 mesi di carcere (pena eventualmente solo parzialmente sospesa) oltre all’espulsione per 5 anni. «Ha commesso moltissimi errori e ha chiesto scusa» ha detto durante l’arringa, dal canto suo, la legale della difesa Debora Deias. Assistito che ha sostanzialmente ammesso i fatti: «Vuole assumersi le sue responsabilità e vuole anche far capire che era una persona in difficoltà». Ammissioni che hanno portato la difesa a chiedere la pena minima per l’incendio intenzionale – un anno di detenzione – rimettendosi al prudente giudizio della corte per il resto della commisurazione.
«Motivo del tutto futile»
Come detto, la Corte ha sentenziato un pena parzialmente sospesa: nel merito dell’incendio «l’imputato ha agito per un motivo del tutto futile. Non è ammissibile mettere a rischio la salute e la vita di persone per il fatto che non si trovi una cassa sonora – ha ribadito Verda Chiocchetti –. Una volta scarcerato non ha esitato a reiterare il suo comportamento delinquenziale. Vi sono severe ombre su una reale presa di coscienza».
Una paternità da dimostrare
Durante le prime battute del dibattimento è emerso che l’uomo sarebbe diventato padre da una manciata di mesi. Paternità che, secondo la procedura avviata nella Svizzera tedesca, dovrà essere dimostrata tramite il test del DNA. Per questo motivo la difesa si è battuta affinché l’uomo non venisse espulso o che per lo meno questa decisione venisse presa a test conclusi. Richiesta respinta dalla Corte: «Prevale decisamente l’interesse pubblico a un’espulsione rispetto a quello privato – ha detto la giudice –. Allo stato attuale non c’è alcun legame di paternità accertato. E non è ancora stato costruito alcun legame con la minore».