L'intervista

Marco Chiesa: «Lascio la presidenza dell'UDC, Lugano per me si chiama casa»

Un capitolo che si chiude e un altro che sta per aprirsi: a tu per tu con il consigliere agli Stati democentrista
©KEYSTONE / ANTHONY ANEX
Gianni Righinetti
28.12.2023 06:00

Un capitolo che si chiude e un altro che sta per aprirsi, ma non lo si può ancora dichiarare con i crismi dell’ufficialità. Abbiamo intervistato il presidente dell’UDC Nazionale Marco Chiesa che annuncia l’addio al ruolo di numero uno del primo partito svizzero. È tempo di bilanci (elettorali e personali) e di osservare le mosse in vista della corsa al Municipio di Lugano. Chiesa rimane prudente, rispettoso nei confronti del sindaco leghista Michele Foletti.

La decisione è presa. Lascerà la presidenza dell’UDC nazionale. Quali i tempi e i modi di questo addio?
«Ora posso dirlo pubblicamente, il dado è tratto. Durante l’assemblea dei delegati in agenda a Berna alla fine di marzo avrà luogo l’avvicendamento alla presidenza. La commissione cerca del partito è già stata attivata per proporre il mio successore alla testa dell’UDC nazionale».

Esce di scena per motivi politici o privati?
«In fondo per nessuno dei due. Penso semplicemente di aver portato a termine il mio compito. Ho visto crescere i seggi del partito in Consiglio nazionale e in tutte le regioni linguistiche della Svizzera. L’UDC oggi è la prima forza politica del Paese anche considerando il numero dei rappresentati nei parlamenti cantonali. Questi successi si possono raggiungere solo restando coi piedi per terra e prestando attentamente ascolto alle esigenze della popolazione. Esattamente ciò che mi aspetto da chi vuole fare politica nell’UDC».

Eletto nell’agosto del 2020 Lei ha assunto le redini dell’Unione democratica di centro reduce da un brutto colpo, dalla perdita di velocità elettorale per effetto dell’onda rossoverde del 2019. I maligni dicevano che era stato proposto perché nessuno zurighese o bernese avrebbe colto la sfida in quel momento. Come risponde?
«Se fosse così allora dovremmo concludere che i ticinesi sono più coraggiosi degli zurighesi e dei bernesi e che noi sappiamo vincere le sfide difficili e prenderci importanti responsabilità. In verità, credo vi fosse la chiara e generale intenzione dei delegati svizzeri di confermare nei fatti ciò che diciamo a parole, ossia il fatto di essere un partito popolare con radici in tutto il Paese e non solo nella svizzera tedesca».

Dica la verità: è stato Christoph Blocher a cercarla?
«No, non è stato Christoph. Sono stato avvicinato dalla commissione cerca e sono stato invitato da loro ad un’audizione a Zurigo. Ero onorato del fatto che avessero pensato a me ma non credevo che la loro scelta cadesse sulla mia persona. Mia moglie Monja, giustamente, mi ha messo in guardia dalle conseguenze di questa carica. Poi, Maddalena (ndr. Martullo Blocher) l’ha convinta e rassicurata durante un incontro personale nel quale si sono parlate con grande franchezza. A quel punto abbiamo detto sì, dico appositamente abbiamo perché queste sono decisioni che in famiglia si devono prendere all’unanimità».

Quindi possiamo sostenere che non se l’è sentita di dirle «no grazie Maddalena»?
«Maddalena mi ha detto che avrei potuto contare sulla sua piena disponibilità e il sostegno della direzione del partito che è composta da 9 persone. Così è stato durante tutti gli anni della mia presidenza. Avere persone competenti e affidabili al tuo fianco è fondamentale. Con loro non ho mai dovuto guardarmi le spalle, cosa che in politica è merce rara. Non dimentico però Peter Keller e Andrea Sommer, il segretario generale e la responsabile della comunicazione, nomi che alle nostre latitudini non sono conosciuti ma che hanno contato e contano molto per me».

Non sarei la persona che sono oggi senza tutto il bagaglio di esperienza e di conoscenze che ho potuto sviluppare durante la presidenza del primo partito svizzero

Cosa le ha dato l’UDC in questi anni?
«Non sarei la persona che sono oggi senza tutto il bagaglio di esperienza e di conoscenze che ho potuto sviluppare durante la presidenza del primo partito svizzero. Ho imparato a pormi ai massimi livelli della politica nazionale tra soli presidenti svizzero tedeschi. Ho frequentato quelle che molti definiscono le stanze dei bottoni e le élite economiche del Paese. Ma tutto questo non mi ha mai cambiato. Il più grande piacere che ho ricavato da tutti questi anni è stato certamente quello di aver incontrato molti cittadini nei quattro angoli del nostro Paese. Persone che costituiscono la nostra base e che sono l’essenza dell’UDC e dei suoi valori».

Ha girato come una trottola per tutte le sezioni UDC della Svizzera e per rilasciare interviste a tutti i media. Ma alla fine cosa le ha dato questa attività frenetica?
«Ho dovuto affrontare la solitudine e ho dovuto imparare a farlo perché non appartiene al mio carattere. Ho imparato anche a tenere i nervi saldi, non che mi manchi l’equilibrio, ma le pressioni sono sempre state molto forti. E poi ho approfondito il tedesco, pensi che ancora oggi prendo lezioni per migliorarmi e non smetterò. Detto questo ho conosciuto le più svariate realtà della Svizzera, la nostra popolazione, le nostre culture e tradizioni. Sa, ad esempio, al presidente dell’UDC non si domanda se assisterà alla Festa della lotta svizzera, si chiede solo a che ora arriverà al mattino. Comunque dopo tutto questo peregrinare le posso confermare che siamo il miglior Paese al mondo. E di questo ne vado fiero al di là del mio credo politico».

Oggi, alla luce dei risultati delle recenti Elezioni federali (9 seggi in più) si sente di dire di non fuggire, ma di lasciare da vincitore?
«Lascio con la consapevolezza di aver dato tutto ciò che potevo per far nascere uno spirito di squadra e far sì che il partito tornasse a crescere dopo le deludenti elezioni del 2019. Ma vi sono altri obiettivi fondamentali per un presidente. Uno tra i più importanti per me era quello di avere una linea politica chiara nell’ambito dei temi che mi stanno a cuore. Penso all’immigrazione di massa, alla politica dell’asilo e all’approvvigionamento energetico del Paese».

Insomma, non c’era momento migliore dal punto di vista politico?
«La vita e i suoi percorsi sono fatti di capitoli. Ho deciso consapevolmente di guardare avanti per scrivere il prossimo».

Quando, in sostanza, dice che c’è dell’altro, pensa alla vita professionale o a quella privata?
«La prima volta che sono entrato a Palazzo federale nel 2015, Micol aveva cinque anni. Faceva le linguacce alla telecamera che la inquadrava sulla Piazza federale. Oggi è una signorina di tredici anni. Certo, penso alla mia vita privata dopo tanti anni di soddisfazioni ma anche di sacrifici. Non sottovaluto neppure il fatto che l’impegno al Consiglio degli Stati occupa complessivamente poco meno del 40% del mio tempo. Questo è il nostro sistema di milizia, un sistema in cui credo».

Più della metà delle notti nell’arco di un anno le passo fuori casa, in albergo, per impegni politici, in particolare per quelli legati al partito

Quante notti all’anno ha passato lontano da casa e quante giornate in treno per impegni legati all’UDC?
«Più della metà delle notti nell’arco di un anno le passo fuori casa, in albergo, per impegni politici, in particolare per quelli legati al partito. I miei predecessori avevano certo più facilità nel rientrare a casa la sera. Noi ticinesi viviamo un’altra realtà. Penso di essere stato tra i viaggiatori più fedeli delle FFS negli ultimi anni».

Insomma, pare di capire che il ciclo è stato importante, interessante, ma ora gli affetti e la famiglia chiamano. Tanto più che i figli crescono in fretta…
«Tra tre anni Mathias sarà maggiorenne. Tempus fugit. L’anno prossimo compirò 50 anni. Chi ha la mia età sa quanto i valori della vita diventino sempre più importanti col trascorrere del tempo. Ma capiamoci bene, non sono certo in disarmo. Intendo solo fissarmi altre priorità al di là di ciò che mi porta con grande piacere e onore a Berna».

Lei è stato brillantemente rieletto consigliere agli Stati. Carica che manterrà?
«Si, mi concentrerò a Palazzo federale su ciò per cui sono stato eletto e confermato, ossia rappresentare il Canton Ticino a Berna nella Camera dei Cantoni. Questo mi appaga e sono molto grato alle ticinesi e ai ticinesi che mi hanno dimostrato la loro fiducia».

La tempistica della sua partenza porta a una logica conseguenza politica. L’idea di correre per il Municipio di Lugano, ora che lascia il pesante zaino dell’UDC, è semplicemente realtà?
«Non è un mistero per nessuno il mio attaccamento alla città di Lugano. Come pure non lo è il rispetto che porto per il sindaco Michele Foletti e alla Lega dei ticinesi. Il sindaco, non fosse che per la dedizione che ha mostrato, merita di essere riconfermato».

A Lugano, pensando all’area Lega-UDC, il prossimo anno mancheranno i voti di quella straordinaria persona che si chiamava Marco Borradori. Avete fatto qualche calcolo?
«Mi fa piacere che nella sua domanda evochi il nome di Marco Borradori. Marco, assieme a Giorgio Giudici, hanno plasmato la nostra città. Certo questi calibri sono difficilmente raggiungibili, tanto per essere chiari. La nostra area deve tenere conto del fatto che mancherà la forza trainante del compianto sindaco leghista. Servono dunque motivazione e determinazione ma soprattutto idee chiare per costruire il futuro della locomotiva del Cantone».

Le posso assicurare che Lega e UDC metteranno in campo le personalità migliori per convincere l’elettorato e ottenere la fiducia della popolazione luganese

Lei ha sempre speso parole di rispetto nei confronti del sindaco leghista Foletti, ma a Lugano la situazione è molto fluida, potrebbe accadere di tutto, anche che la vostra area perda un seggio. Ci ha pensato?
«Le posso assicurare che Lega e UDC metteranno in campo le personalità migliori per convincere l’elettorato e ottenere la fiducia della popolazione luganese. Ogni elezione o votazione è una sfida. Ma le sfide più importanti meritano di essere affrontate senza paura».

Insomma, non giriamoci troppo attorno, Chiesa, lei sta già parlando da candidato al Municipio di Lugano per la lista Lega-UDC.
«Parlo da cittadino luganese che ama quella che chiama casa».

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