Il personaggio

Mario Botta, quasi un vicino di casa all’epoca delle supponenti archistar

Nel giorno del suo ottantesimo compleanno ripercorriamo i tratti distintivi della carriera e della filosofia professionale dell’architetto che più di tutti ha saputo portare nel mondo dalla natia Mendrisio un’etica umanistica e lungimirante del progettare e del costruire
Fulvio Irace
01.04.2023 06:00

Oggi Mario Botta festeggia gli 80 anni. Per celebrare l’importante genetliaco del grande architetto di Mendrisio, che è gloria e vanto del nostro Paese e del nostro cantone, abbiamo affidato al celebre storico italiano dell’architettura Fulvio Irace il compito di tracciarne un ritratto umano e professionale.

La Cattedrale di Évry, in Francia; il Teatro La Scala a Milano e l’ampliamento della Querini Stampalia a Venezia, in Italia; la Torre Kyobo e il Museo d’Arte Samsung a Seul, in Corea del Sud; il Museo d’Arte Moderna a Los Angeles, negli Stati Uniti;il Museo a cielo aperto a Gerusalemme e la Sinagoga Cymbalista a Tel Aviv, in Israele; la Banca Nazionale ad Atene, in Grecia; la Granatakappelle a Penken, in Austria… Ci vorrebbe il mitico Leporello di Don Giovanni per fare solo i nomi di tutte le opere di Mario Botta sparse nel mondo, al punto da domandarsi quale sia il segreto della vitalità di questo giovane ottantenne che non solo non ha deciso di appendere al chiodo la matita dell’architetto, ma anzi ha dimostrato di non aver paura di sfidare la catastrofe della guerra costruendo la chiesa e l’edificio parrocchiale di Don Orione nella periferia di Kiev, in Ucraina.

Chi è dunque Mario Botta, l’architetto svizzero più famoso fuori dei confini della sua patria, eppure così simile a una figura familiare nelle strade del suo paese, Mendrisio? Ho avuto più volte occasione di accompagnarlo nel tragitto dallo studio, alle porte della città, all’Accademia di Architettura di cui è stato nel 1996 uno dei padri fondatori: gli amici, i conoscenti o i semplici paesani che ne hanno visto la fotografia sui giornali o l’immagine in qualche trasmissione televisiva, gli si avvicinano, lo accostano con bonaria deferenza, magari gli chiedono anche qualche consiglio. Nell’epoca delle archistar, Mario Botta sembra il vicino di casa, affabile, fidabile e discreto: eppure il suo ruolo nella promozione della Svizzera ne fa un vero ambasciatore della cultura della sua terra, un esempio perfetto di diplomazia culturale

Nel 1949, Orson Welles, nel celebre film Il terzo uomo pronunciò una crudele battuta - «In Svizzera hanno avuto amore fraterno , cinquecento anni di democrazia e pace, e cosa hanno prodotto? Gli orologi a cucù» – che oggi sembra smentita dai fatti. La Svizzera infatti ha prodotto grandi architetti e tra questi Mario Botta occupa un posto speciale che nessuno potrebbe smentire. Botta infatti non solo è, dagli anni Settanta, uno dei protagonisti dell’architettura mondiale, ma è tra i pochi architetti che hanno concretamente dimostrato che l’architettura è politica nel senso più alto del termine.

Suo, innanzitutto, il Padiglione per il settecentesimo anniversario della Confederazione eretto come una squillante tenda nel castello di Bellinzona; suo anche il San Carlino ligneo galleggiante sulle acque del lago di Lugano per festeggiare i 400 anni dalla nascita dell’illustre conterraneo, Francesco Borromini. Suo (insieme a Leo Galfetti) il progetto per la costituzione dell’Accademia di Architettura a Mendrisio, vera e propria rivendicazione della vocazione italiana del Canton Ticino e risposta orgogliosa agli altri atenei di lingua francese e tedesca della Confederazione. Suoi infine l’ispirazione, nel 2008, per lo BSI Swiss Architectural Award, presto affermatosi come uno dei più prestigiosi nel mondo e la creazione del Teatro dell’Architettura di Mendrisio, come supporto dell’Accademia e interfaccia tra la realtà universitaria e il pubblico generalista.

Cultura del progetto

Architetto al cento per cento, Mario Botta ha infatti compreso subito che la costruzione di una cultura del progetto ispirato ai criteri umanistici e non solo al paradigma scientifico è l’unica arma contro lo sperpero delle risorse in favore di un nuovo patto di conciliazione con la delicata dimensione ambientale dei territori. E ne ha dato dimostrazione sin dai primi passi nei luoghi del suo cantone, indicando una più rispettosa maniera di abitare e insediarsi nelle campagne e sui colli dei vicini borghi; il suo esordio nei tardi anni Cinquanta è stato precoce (nato nel 1943, aveva poco meno di vent’anni) attirando su di sé immediatamente l’attenzione della critica: le case unifamiliari a Morbio Superiore, a Stabio, a Cadenazzo e a Riva San Vitale sono finite nelle pagine di influenti storie dell’architettura moderna e hanno esercitato una grande influenza sui giovani architetti italiani ed europei. Come Palladio con le ville venete, Botta ha consolidato un modello che ha provveduto nei decenni successivi a formare il mito della cosiddetta «scuola ticinese».

Forte di un carisma che gli aveva forgiato l’aura di giovane maestro, ha potuto così disseminare la forza del suo insegnamento costruendo a Morbio, a Balerna, a Lugano,a Pregassona, a Massagno, a Viganello, a Stabio, eccetera, scuole e case, palestre e biblioteche, centri artigianali e complessi produttivi, oltre che le sedi delle più prestigiose istituzioni finanziarie come la Banca del San Gottardo a Lugano e la Banca di Stato a Friburgo. I motivi del suo travolgente successo sono molti, ma forse più importante di tutti , l’autorevolezza di un’architettura memore dell’importanza del suo ruolo pubblico. Come il suo maestro Louis Kahn, Botta non ha mai smesso di esercitare la protesta costruttiva contro l’avanzare di un modello di globalizzazione che vuole l’architettura asservita a semplice strumento di propaganda di una visione meramente finanziaria del mondo, contrapponendole una visione etica di resistenza all’assimilazione e alla cancellazione dell’eredità della città occidentale.

Paradossalmente si deve a questa posizione anche la sempre più frequente richiesta di costruire nella Cina postcomunista (dove è affaccendato nell’impegnativa edificazione della Tsinghua University di Pechino) , nella Corea del Sud (con la grande cattedrale immersa nel verde a Namyang) e nell’ America della deregulation urbanistica , con il Museo d’arte moderna di San Francisco. Ognuno dei suoi progetti porta infatti l’impronta di un’idea dell’architettura che va oltre le performance estetiche e funzionali per affermare nei luoghi un principio di coesistenza pacifica tra le comunità e l’ambiente: non a caso i due temi che sono al centro della sua attenzione ormai da diversi decenni, sono quelli dell’architettura sacra e dei musei , oggetto di una recente mostra al MAXXi di Roma che ha riscosso tanto entusiasmo di pubblico da essere prorogata due volte.

L’Italia deve molto a Mario Botta che a sua volta la riconosce come patria d’adozione: le sue architettura nella penisola costituiscono un catalogo a sé, di cui il paragrafo dedicato alle chiese è la più avvincente appendice. Dalle grandi città come Torino o Bergamo ai piccoli centri come Terranuova Bracciolini o Seriate, Botta ha dimostrato di saper onorare il suo debito culturale con il Paese europeo più vicino al suo cuore, l’Italia: il Mart di Trento è il talentuoso commento all’architettura urbana e la più forte immagine contemporanea nel cuore della città storica; l’ampliamento del teatro La Scala di Milano una dimostrazione della fiducia della città nell’affidargli la cura di uno dei suoi gioielli più preziosi.

Ma da riconoscente figlio del cantone di lingua italiana, Botta ha costruito nel suo Paese alcune delle opere più memorabili: la chiesa di San Giovanni Battista a Mogno e la Cappella di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro, veri e propri inni alla nostalgia delle montagne svizzere e canti in pietra alla bellezza dell’arte e del creato.