Maxitruffa da 80 milioni: condannato a 6 anni e 9 mesi

Testa bassa, le mani a coprire il volto. Poi, le parole del presidente della Corte delle assise criminali Mauro Ermani: «Lei oggi sarà scarcerato». Infine, le lacrime. Danilo Larini, uno degli artefici della maxitruffa da 80 milioni di franchi, passerà le feste a casa con la famiglia. Da condannato, comunque. Sei anni e 9 mesi la pena inflitta dalla Corte, oltre a 180 aliquote giornaliere da 30 franchi l’una e una multa di 2.000 franchi. Larini, che fino a ieri aveva trascorso in carcere 4 anni e 7 mesi potrà dunque lasciare la sua cella. Questo in virtù del fatto che ha già scontato i due terzi della pena. Il giudice, nel motivare la sentenza, ha comunque ordinato al 49.enne – difeso dall’avvocato Marco Bertoli – il divieto di svolgere qualsiasi attività di fiduciario, commerciale e finanziaria. Non potrà gestire cose mobili e immobili appartenenti a terzi. L’ultima parola, in merito alla scarcerazione, spetterà comunque al Giudice dei provvedimenti coercitivi il quale, entro tre mesi, dovrà pronunciarsi in merito. Il coimputato difeso dall’avvocato Roberto Haab, un 69.enne italiano che secondo l’accusa sostenuta dal procuratore pubblico Daniele Galliano aveva preso parte alla truffa legata alla Fondazione cassa di risparmio di Civitavecchia – si parla di 25 milioni di euro – è invece stato assolto.
Truffati almeno 75 clienti
Tutto il procedimento, andato in scena da lunedì a quest’oggi, si è sostanzialmente diviso in due filoni. Il primo, quello più corposo, riguarda i sei sistemi di truffa che Larini e un correo – giudicato separatamente – hanno messo in atto tra il 2008 e il 2015. L’inizio della vicenda si può ricondurre, temporalmente, al 2011 quando gli averi dei clienti depositati in una banca specializzata in investimenti e transazioni via internet si polverizzano. I due, al posto di comunicare ai clienti il fatto che gli investimenti siano andati male, preferiscono guardare oltre. Il tutto per non subire un danno di immagine. Ed è qui che mettono in piedi – per dirla con le parole di Ermani – «un sistema estremamente articolato e sempre più raffinato», ciò che denota «sin dall’inizio una volontà delinquenziale». Vengono aperte numerose società sparse in tutto il mondo, offerti investimenti in titoli obbligazionari che sono in realtà carta straccia, allettanti polizze assicurative (con interessi anche del 6,5%) che in realtà non portano a niente. Tutto il denaro che entra va a coprire i buchi creati. E a permettere a Larini di mantenere il proprio altissimo tenore di vita. È stata creata «una struttura societaria tanto imponente quanto farlocca – ha sentenziato il giudice –. Uno specchietto per le allodole, dove le allodole erano i clienti».
L’errore della segretaria
Nel novembre del 2015 c’è un primo arresto. Da dietro le sbarre Larini, tramite il suo precedente «improvvido» – così si è espresso il giudice – avvocato, fa uscire dei «pizzini», bigliettini con le indicazioni di far «sparire» sei milioni di franchi. Un errore della segretaria, però, manda all’aria il piano. Da quel giorno si scoperchia il vaso di Pandora che porterà a scoprire la truffa da 80 milioni di franchi perpetrata ai danni di almeno 75 clienti.
La seconda carcerazione
Il 49.enne, dopo quattro anni di carcere, nel 2019 viene scarcerato. Ma a maggio di quest’anno, le porte delle stampa si riaprono. Ci ricasca. Forte della fiducia acquisita dalla presidente di una Fondazione, Larini ottiene degli spazi dove insediare il proprio ufficio e, come contropartita, svolge lavori amministrativi per la Fondazione. Dai conti, però, spariscono 100.000 franchi. Larini ha sempre sostenuto che ci fosse un accordo per la restribuzione. Tesi alla quale la Corte non ha creduto.
Violato il principio di celerità
Oggi la giustizia ha presentato il conto: 6 anni e 9 mesi di carcere. Larini, però, è come detto tornato in libertà dopo averne scontati 4 anni e 7 mesi (in sostanza due terzi della pena), sebbene sia stato ravvisato un «rischio di recidiva concreto». Tra le attenuanti, la Corte ha infatti ritenuto che il condannato abbia fornito un’ampia collaborazione e che sia stato violato il principio di celerità. Sei anni per concludere un’inchiesta – «comunque ben fatta e frutto di un lavoro certosino», ha commentato Ermani– sono troppi.