Sanità

Meno infermieri dall’Italia? Il Ticino punta sui suoi giovani

Il nuovo accordo fiscale, assieme a una serie di incentivi che la Lombardia sta ideando per trattenere i professionisti della salute, potrebbe rendere meno attrattiva la Svizzera - Paolo Bianchi: «Il bacino da cui attingere rimane grande, ma il nostro obiettivo è aumentare i residenti formati»
©Chiara Zocchetti
Martina Salvini
18.02.2023 06:00

Con l’entrata in vigore del nuovo accordo fiscale, attrarre frontalieri nel campo socio-sanitario potrebbe diventare più complicato. Di riflesso, sarà ancora più importante aumentare la formazione del personale residente. A lanciare l’allarme è stato il sindacalista dell’OCST Andrea Puglia, secondo il quale la pressione fiscale si farà sentire soprattutto sui redditi medio-alti, piuttosto che su quelli bassi. «Il risultato sarà sì quello di rendere meno attrattivo il Ticino. Ma non per i profili meno qualificati, bensì per le figure professionali specializzate. Figure che spesso sono anche quelle di cui il nostro mercato del lavoro ha bisogno», sostiene Puglia. «Facendo due conti, gli infermieri che verranno a lavorare in Ticino dal 2024 (i nuovi frontalieri, ndr) andranno a perdere tra il 10 e il 25% del salario per via della tassazione in Italia». Con quali conseguenze? «La differenza salariale rimarrà, ma il divario si accorcerà. Così, lo stipendio non sarà più l’unica variabile da considerare».

Detto altrimenti: non si potrà far leva solo sui salari per attirare i frontalieri attivi nelle professioni sociosanitarie. E questo perché - spiega Puglia - «in Italia il settore vanta alcuni benefit: un orario settimanale ridotto, maggiori tutele legali sia in termini di protezione giuridica in caso di danni verso terzi sia per quanto riguardo le tutele di protezione contro i licenziamenti, e, infine, maggiori congedi per la cura di familiari fragili e ferie. Molti, a fronte di uno scarto salariale inferiore rispetto a quello attuale (oggi in Italia un infermiere neolaureato prende circa un terzo di quanto incassa un collega che lavora oltreconfine, ndr) potrebbero decidere di lavorare più vicino a casa».

Lo scarto rimane

Il Cantone si dice però fiducioso. Secondo Paolo Bianchi, capo della Divisione della salute pubblica, l’introduzione dell’accordo fiscale non scombinerà i piani. «La nuova intesa, insieme alle misure messe in atto dall’Italia per incoraggiare i lavoratori a restare, potrà forse far cambiare metro di valutazione ad alcuni, ma il bacino lombardo è talmente grande rispetto al “piccolo” Ticino che non credo ci saranno grossi problemi a reclutare il personale necessario a colmare il fabbisogno non coperto dagli operatori sanitari residenti». È vero, ammette però Bianchi, che lo scoppio della pandemia ha cambiato la sensibilità delle autorità nei confronti della professione: «In Italia, per favorire l’ingresso in corsia dei giovani professionisti, hanno allentato alcune regole nel percorso formativo e migliorato le condizioni di impiego dei medici. Questo non cambia in maniera determinante il differenziale di salario, ma rende comunque meno attrattivo di un tempo venire a lavorare in Ticino e riduce quindi il bacino di interessati. Lo vediamo dalla partecipazione ai concorsi per le professioni mediche, inferiore al periodo pre-COVID». In effetti, gli fa eco Aurelio Filippini, presidente dell’Ordine delle professioni infermieristiche (OPI) di Varese «con la pandemia un po’ tutti i Paesi si sono resi conto di quanto siano preziosi medici e infermieri, e tutti ora cercano di trattenere i propri professionisti». Ecco perché anche la Lombardia si sta muovendo per arginare il fuggi fuggi verso il Ticino. «L’idea, insieme alla Regione, - spiega Filippini - è di creare un welfare locale, introducendo una serie di incentivi fiscali e sociali (asili nido, palestre) per migliorare le condizioni di vita e di lavoro in Italia. In più, abbiamo chiesto alla Regione di dare un contributo ecomico ai lavoratori delle zone di confine. Non si è parlato ancora di cifre, ma perché possa funzionare, a mio avviso, dovrebbero essere almeno 500 euro». In questo modo, sommando anche un nuovo accordo fiscale che non agevolerà i nuovi frontalieri, «speriamo quantomeno che un lavoratore ponderi bene i pro e i contro prima di scegliere di spostarsi».

L’apporto della manodopera estera è ancora decisivo e probabilmente lo resterà anche in futuro, nonostante gli enormi sforzi profusi dal Cantone per creare i profili idonei sul territorio
Andrea Puglia, sindacalista OCST

Numeri di oggi e stime di domani

Che cosa può fare, quindi, il Ticino per non restare senza personale? Da un lato, riprende Puglia, sarà necessario investire sulla formazione dei giovani ticinesi nelle professioni sociosanitarie, mentre dall’altro occorrerà trovare altri strumenti per continuare ad attrarre frontalieri. «L’apporto della manodopera estera è ancora decisivo e probabilmente lo resterà anche in futuro - dice Puglia -, nonostante gli enormi sforzi profusi dal Cantone per creare i profili idonei sul territorio». Un problema ben conosciuto a Bellinzona. Non a caso, per far fronte alla carenza di profili il Consiglio di Stato ha lanciato nel giugno di due anni fa il Piano d’azione Prosan 2021-2024, che mira appunto a incrementare il personale residente nelle professioni sociosanitarie.

Attualmente, sono circa 200 i giovani che terminano la formazione alla Scuola specializzata superiore in cure infermieristiche (SSSIC) e alla SUPSI. Secondo i dati del Cantone, si è passati dai 140 del 2011 ai circa 200 del 2022. L’obiettivo di Prosan è raggiungere i 250 entro il 2024. Anche perché, stando al rapporto elaborato nel 2019, nel 2030 in Ticino il fabbisogno complessivo sarà di oltre 10.300 professionisti nel campo delle cure. Ben 2.700 in più rispetto al 2015. Per coprire il fabbisogno serviranno 820 nuovi specialisti, tra cui 360 infermieri, 100 operatori sociosanitari e 270 addetti alle cure. «In pratica, se consideriamo che oggi in Ticino un giovane su dieci si diploma in una di queste professioni, per coprire il fabbisogno stimato nel 2030 solo con il personale residente dovremmo avere un giovane su cinque», osserva Bianchi. «Ma è complicato – ammette – perché la coperta è corta. Ci sarebbero ripercussioni negative su altri settori, che pure necessitano di profili indigeni qualificati».

Nonostante tutto, quindi, la manodopera locale non basterà. «È una semplice questione di numeri – osserva dal canto suo Puglia - il settore è in costante crescita, visto anche l’invecchiamento della popolazione, e il bacino ticinese non è sufficientemente grande per poter fornire tutti i profili richiesti». Numeri alla mano, tra case anziani e ospedali in Ticino i curanti sono 7.700. Di questi, 1.900 sono frontalieri (il 25%). «Su 7.700 persone, gli infermieri sono 4.200, di cui 1.400 frontalieri. Uno su tre», dice Bianchi: «In una certa misura non potremo farne a meno. Da un lato, infatti, il bisogno di personale cresce, ma al contempo, per via del calo della natalità, i giovani che si affacciano al mondo del lavoro sono sempre meno. Ma in tutti i casi il nostro obiettivo deve rimanere quello di allargare il numero di giovani residenti formati».

Quattro ambiti di intervento

A questo proposito, il Piano Prosan prevede in particolare quattro ambiti di intervento: un sostegno finanziario agli studenti durante la formazione; l’introduzione dell’obbligo, per gli enti sociosanitari, di formare i giovani in misura proporzionale al personale attivo; il riconoscimento di uno sgravio per l’accompagnamento formativo negli enti sociosanitari e, infine, la promozione di misure che possano arginare l’abbandono della carriera e favorire il rientro nel circuito di chi ha lasciato la professione. «In un anno, sono stati fatti passi avanti su vari fronti», sottolinea Bianchi. «Innanzitutto, è stata aumentata l’indennità di stage. Ora sono previsti 700 franchi al mese per il primo anno di formazione, 850 per il secondo e 1.050 per il terzo». Cifre che già dal 2024 verranno adeguate, passando a 900 franchi, 1.000 e 1.100. «Inoltre, è previsto un assegno di formazione in questo settore, il cui importo varia in base al reddito dello studente». Per quanto riguarda i compiti delle strutture, invece, è stato introdotto l’obbligo formativo: «In pratica, con i contratti di prestazione del 2023 entra in vigore un nuovo sistema: le strutture sociosanitarie sono tenute a garantire un certo numero di settimane di stage, calcolato in base ai dipendenti attivi in quelle professioni. Chi forma di più, riceve incentivi finanziari; chi meno, alimenta questi incentivi». In Ticino, oggi, «un giovane su 10 già si diploma in una professione di cura», spiega il direttore della Divisione della formazione professionale, Paolo Colombo. «È importante proseguire gli sforzi congiunti per mantenere attrattiva la formazione ma anche la professione, per fare in modo che questi professionisti rimangano in attività il più a lungo possibile».

Rispetto all’anno precedente, abbiamo rilevato un aumento complessivo di 32 unità
Paolo Colombo, direttore della Divisione della formazione professionale

Quest’anno in 286 ai blocchi di partenza: «L’interesse c’è»

Nell’anno scolastico 2022/2023 hanno iniziato una formazione infermieristica 286 giovani, suddivisi equamente tra la Scuola specializzata superiore in cure infermieristiche (SSSCI) e la SUPSI. «Rispetto all’anno precedente, abbiamo rilevato un aumento complessivo di 32 unità», spiega il direttore della Divisione della formazione professionale, Paolo Colombo. «Un ulteriore aumento sarà possibile – dice Colombo – ma è vincolato alle possibilità di ampliare le possibilità di stage, con le misure previste dal Piano d’azione Prosan e con la collaborazione tra tutti i partner del settore».

L’offerta è stata adeguata

Per raggiungere gli obiettivi fissati dal Prosan, quest’anno sono 280 i posti formativi garantiti da SSSCI e SUPSI. «A settembre, noi ne metteremo a disposizione 140, dieci in più dello scorso anno», spiega Carla Pedrazzani, responsabile del Bachelor SUPSI in Cure infermieristiche. «Abbiamo adeguato l’offerta alle esigenze: erano 120 posti due anni fa, 130 lo scorso anno e ora arriveremo a 140, proprio per rispondere al bisogno di formare più giovani sul territorio». La percentuale di chi lascia gli studi nel corso del triennio «è piuttosto contenuta, attorno al 10%», dice Pedrazzani. «L’interesse da parte dei giovani c’è, ma il nostro bacino di utenza è relativamente ridotto e le coorti dei prossimi anni saranno tendenzialmente più piccole. Tanto che finora, nonostante l’esame di ammissione, siamo sempre riusciti a coprire tutta la richiesta dei residenti, lasciando anche un 10-15% di posti a studenti residenti all’estero».