Dodicesima puntata

Natale alla Carità: «Quando intubo un paziente gli prometto che farò tutto il possibile, ma a volte non basta»

Il dottor Fabio Lanzi ci porta con lui nel reparto di cure intense, dove ogni giorno i medici lottano per tenere in vita i pazienti più gravi - C’è chi si è ammalato il giorno dopo la pensione e chi non crede al virus: «Anche se a volte non aprono neppure gli occhi, ci si lega. A loro, alle famiglie»
© CdT/Gabriele Putzu
Martina Salvini
24.12.2020 12:58

I suoi occhi sono l’ultima cosa che il paziente vede prima di essere addormentato. Poi, con perizia, il dottor Fabio Lanzi infila un tubo nella gola del paziente, passa attraverso le corde vocali e arriva giù, fino alla trachea, per dare un po’ di riposo ai polmoni attraverso la ventilazione meccanica. Trentasette anni, di Locarno («anche se sono originario di Avegno e il mio cuore è lì», dice), Fabio Lanzi è capo clinica e specialista in medicina intensiva. Con i suoi colleghi in camice blu è colui che si occupa della fase più critica della malattia, intervenendo quando l’apporto di ossigeno delle maschere non è più sufficiente. «Quando serve intubare, spesso la domanda che ci viene rivolta dai pazienti è ‘per quanto tempo?’. Dobbiamo essere realistici: non parliamo di giorni ma di settimane, nel migliore dei casi due settimane. Nel peggiore 4-5, seguite da una lunga riabilitazione». E poi c’è anche la possibilità peggiore, che il paziente non sopravviva. «Per correttezza anche questo viene detto prima dell’intubazione, e nei pazienti meno critici non è un discorso semplice da affrontare. Cerco però sempre di rassicurarli, promettendo che faremo il massimo per riuscire a riportarli allo stato in cui si trovavano prima di ammalarsi. A volte, purtroppo, malgrado noi diamo tutto, questa malattia ha un decorso sfavorevole».

© CdT/Gabriele Putzu
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«Diamo tutto, ma a volte non basta»

Quando si decide con la famiglia che le opzioni sono esaurite, che il corpo non ce la fa più e la malattia ha superato la medicina, inizia l’accompagnamento alla morte. «Il paziente rimane sedato e facciamo di tutto perché non percepisca questo passaggio, inoltre garantiamo la presenza della famiglia durante le sue ultime ore di vita». Si cerca di dare tutto, sempre. Eppure, a volte non basta. «Nella prima ondata abbiamo avuto un paziente ricoverato in cure intense per quasi due mesi. 55 anni, una moglie e un figlio adolescente, non ce l’ha fatta. Abbiamo dato tutto, vista anche la sua età. Era in buona salute, lavorava. Aveva la pressione un po’ alta ed era in carne, ma nulla di più. Non ci volevamo arrendere, abbiamo tirato in là il più possibile. Finché non abbiamo avuto più margine: il polmone era troppo rovinato dalla malattia e non c’erano ulteriori misure terapeutiche da proporre. A quel punto, visto il peggioramento, abbiamo chiesto ai famigliari di venire. Abbiamo spiegato loro i limiti delle terapie e i limiti del corpo. Con loro siamo andati in camera del paziente, abbiamo parlato della sua vita, dei suoi hobby. L’abbiamo conosciuto un po’ meglio. Come persona. Parlavamo e mano a mano scalavamo il supporto dei macchinari, accompagnandolo alla morte». «Abbiamo avuto decessi anche tra pazienti sessantenni che erano in salute. Non è il virus in sé che uccide, ma la reazione del corpo al virus. Il sistema immunitario viene completamente scombussolato. Per questo usiamo il cortisone, per aiutare il sistema di difesa del corpo ad organizzarsi e a non iper-reagire». È dura, confessa Lanzi. «Quando dobbiamo dire ai parenti che il paziente è morto, o che non possiamo più aiutarlo, preferiamo non farlo mai per telefono. Invitiamo qui la famiglia. Li guardiamo negli occhi. In questi momenti cerchiamo di esserci davvero per chi abbiamo di fronte, essere aperti a cogliere le loro emozioni». Ci si abitua mai a dare certe notizie? chiediamo. «Non ci si abitua mai. E nel momento in cui ti abitui, devi cambiare mestiere. Non possiamo diventare macchine».

© CdT/Gabriele Putzu
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«Cinque pazienti intubati in una notte. Col sesto ho detto basta»

Sotto le mani del dottor Lanzi è passato un centinaio di pazienti dall’inizio della pandemia. «Ricordo il primo periodo, la scorsa primavera. In una sola notte abbiamo intubato 5 pazienti e ci sarebbe stato il sesto. Ai colleghi arrivati alla mattina ho chiesto di occuparsene. Non ce la facevo più». Non tutti però accettano di essere intubati. C’è chi, nella prima ondata come adesso, preferisce lasciare il posto ad altri. «L’ultimo caso proprio l’altra sera: era un signore settantenne che ha deciso di non seguire un percorso di terapia intensiva. Questo capita soprattutto con i pazienti molto anziani, che spesso ci dicono ‘Tanto ho fatto la mia vita’. Da parte mia, cerco di dare al paziente la rappresentazione più realistica possibile di quello che potrebbe essere il suo percorso. Non ho la sfera di cristallo, ma avendo visto una notevole quantità di pazienti posso cercare di dare un’idea abbastanza realistica». La parte più difficile viene quando la decisione deve essere presa dai famigliari: «Spesso è piuttosto complicato far capire ai parenti che da loro abbiamo bisogno di sapere cosa il paziente avrebbe voluto per se stesso. Viene quasi automatico invece rispondere pensando a cosa ciascuno vorrebbe per sé».

Quegli scettici del coronavirus

Tra i molti ricoverati, il dottor Lanzi ha avuto anche uno scettico del coronavirus. «Ci diceva che non esiste. Non mi sono mai permesso di giudicare le sue idee. Però gli ho spiegato che aveva una malattia - poco importa come voleva chiamarla - che lo avrebbe portato alla morte, e che noi avevamo la possibilità di farlo guarire e permettergli di tornare a casa. A quel punto, ha accettato di essere aiutato. Ma non credo proprio che si sia ricreduto».

© CdT/Gabriele Putzu
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«Non parlava da due mesi, ho deciso di farle un regalo»

Poi ci sono le belle notizie, quelle che danno al personale curante la grinta necessaria per andare avanti. «Ieri ho visto una paziente settantenne che avevamo mandato in riabilitazione. Era tornata per farsi controllare e cambiare la tracheostomia (un’apertura sul collo, a livello della trachea, ndr). Ponderando rischi e benefici, abbiamo deciso di togliergliela. Era la persona più felice del mondo. Non parlava da due mesi». Mentre racconta, il dottor Lanzi sorride dietro alla mascherina. E ci dice che sì, è dura, durissima a volte. Si fa fatica a staccare («Quando torno a casa riaccendo il computer, controllo e ricontrollo i parametri dei pazienti prima di andare a dormire, chiamo i colleghi per sapere come procede...»). «Ma vedere quella signora, che mi aspettavo di trovare su una barella con un camice da ospedale, seduta, ben vestita e persino truccata, mi ha aperto il cuore. Che bello, mi sono detto. E ho voluto farle un regalo».

«Si è ammalato il giorno dopo la pensione»

Mentre salutiamo il dottor Lanzi, passiamo di fianco a una stanza. Dentro c’è un uomo ricoverato da 51 giorni. «Si è ammalato il giorno dopo essere andato in pensione. Ci siamo dati come obiettivo quello di potergli far vivere davvero questa pensione», ci spiega il medico. È così, con certi pazienti si crea un legame diverso, speciale. «Anche se in due mesi il paziente non ha mai aperto gli occhi, ci si lega. A lui, alla sua famiglia. La strada davanti a noi è lunghissima, ma siamo positivi».

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