L'intervista

Nicoletta Casanova: «Se le imprese stanno bene, stiamo tutti meglio»

L'imprenditrice parla a ruota libera per la prima volta dopo la sua nomina a presidente dell’Associazione industrie ticinesi
Alla guida dell’AITI da maggio: Nicoletta Casanova, imprenditrice, classe 1970. ©Gabriele Putzu
Gianni Righinetti
17.10.2025 06:00

Nicoletta Casanova, nel mese di maggio, appena eletta dall’assemblea, ha detto «calma» a chi le chiedeva dichiarazioni, obiettivi e visioni. Ha voluto privilegiare la fase dell’ascolto interno, prima di esporsi. Cosa si sente di dire dopo questo percorso?
«Che l’AITI e i suoi organi sono pronti. Abbiamo definito e aggiornato obiettivi e visioni, ora si apre una stagione intensa. Le attuali sfide economiche e politiche ci impongono senso di responsabilità e azione. È tempo di passare dalle parole ai fatti, e a un’associazione più dinamica ed imprenditoriale».

Nicoletta Casanova, una imprenditrice che si è fatta le ossa nel mondo delle «start-up». Condivide?
«Condivido, se al mondo start-up si accosta quello dell’innovazione. È questo che ha plasmato il mio approccio alla vita, non solo imprenditoriale. Di fronte alle sfide, anche a muri apparentemente insormontabili, sono convinta che esista sempre una soluzione, un nuovo modo per affrontare il problema. Ma serve coraggio per pensare fuori dagli schemi».

Prima della realtà ticinese, ha conosciuto l’imprenditoria oltre San Gottardo e all’estero?
«Sì, sin dai primi anni dopo gli studi a Zurigo ho lavorato parallelamente su più fronti: Lugano, Losanna, Francia e Canada nel mondo accademico, in start-up e in gruppi internazionali. Da una dozzina d’anni, poi, mi sono impegnata anche a livello associativo locale inizialmente con la creazione di AITI Up!, il vivaio delle start-up di AITI. Nel mentre, sono passata a livello federale, nel consiglio di innovazione di Innosuisse – l’agenzia svizzera per l’innovazione – e in Swiss Medtech. Infine, a livello europeo, nel mondo della fotonica. Comprendere la realtà svizzera e internazionale è sicuramente d’aiuto per fornire un contributo concreto alla realtà cantonale».

Spesso chi fugge dal Ticino non torna più. Lei aveva già in testa il nostro Cantone come sua destinazione per affrontare il tempo della crescita e della maturità, oppure è stato un caso? Come si dice «i casi della vita»?
«Un caso. Mi sono fatta sorprendere dalla vita e, mentre cercavo un impiego quale ingegnere a Zurigo dopo gli studi, sono rientrata per un corso di parapendio e ci sono rimasta, scoprendo un Ticino, a quel tempo, a me sconosciuto: industriale, innovativo e anche high-tech. In meno di due anni è nata la mia prima startup. Questo non mi ha confinata, anzi, mi ha aperto nuove strade verso il mondo».

La sua attività professionale l’ha iniziata negli anni Novanta. Cosa è cambiato, in bene, nel mondo dell’imprenditoria cantonale?
«Gioco in casa: sul fronte dell’innovazione il Ticino ha fatto passi da gigante. Dopo gli anni d’oro, abbiamo capito che è questa l’unica materia prima disponibile. E stiamo investendo bene, sia all’interno delle aziende sia attraverso nuove forme di collaborazione e di open innovation, tanto da essere considerati un territorio altamente innovativo. Si sono al contempo anche affermate molte industrie mature e tradizionali che oggi trascinano tutto il settore e a cui va data molta attenzione».

Ci sono ambiti in cui abbiamo marciato sul posto. Uno dei problemi principali è la distanza crescente tra società civile ed economia, come fossero due realtà distinte

E cosa catalogherebbe tra i «mutamenti poco rallegranti»?
«Ci sono ambiti in cui abbiamo marciato sul posto. Uno dei problemi principali è la distanza crescente tra società civile ed economia, come fossero due realtà distinte. Da una parte una classe imprenditoriale contro cui si punta il dito perché si arricchirebbe sulle spalle dei lavoratori e dall’altra una popolazione che fatica a identificarsi con chi quei posti di lavoro li crea con impegno e rischio personale. Serve molto dialogo ed ascolto reciproco. Come AITI vogliamo essere parte attiva di un riavvicinamento».

Cofondatrice di FEMTOPRINT SA e della «start-up» AxCellerate Sagl, di che cosa si occupa?
«FEMTOPRINT offre servizi avanzati di sviluppo e microfabbricazione di componenti in vetro per settori altamente specializzati: orologeria, medicale, ottica, fotonica e molto altro. Ad esempio, lancette degli orologi, impiantabili medicali, connettori per telecomunicazioni o chip per computer quantistici. AxCellerate, invece, è una spin-off di FEMTOPRINT e si concentra su soluzioni innovative per il testing di farmaci, con lo scopo di accelerare la ricerca, personalizzare le cure e ridurre i test sugli animali».

So che non ama molto i discorsi «di genere», ma è un dato di fatto che lei è la prima donna alla guida di un’associazione economica in Ticino. Una conquista o è sbagliato enfatizzare e dovremmo considerarla «normalità»?
«Reputarla una conquista sminuirebbe le donne e le loro competenze. La considero invece un’opportunità. Giocherò tutte le carte a disposizione, compresa quella della sensibilità femminile, che in taluni frangenti può arricchire il dibattito e contribuire a soluzioni innovative».

Prima di lei ci sono stati Fabio Regazzi e Oliviero Pesenti. Due predecessori «ingombranti». Si sente sotto pressione o bada poco al passato, osservando piuttosto quanto la attende?
«Due figure di peso, da cui ho potuto apprendere molto. Al contempo, mi danno l’opportunità di rompere, nel senso migliore del termine, con il passato. La nuova AITI si fonderà su quanto fatto prima, ma sarà diversa: fortemente orientata alle esigenze degli associati, i cui bisogni evolvono in un contesto sempre più volatile, e con un approccio verso la società civile e la politica che sia responsabile, pragmatico e sostanziato».

La sua entrata in scena, in punta di piedi, pare poco in linea con la realtà di un mondo nel quale si fa a gara a chi grida più forte. È «calma prima della tempesta» o non la vedremo mai nel ring a mostrare «pugni e artigli»?
«Mi vedrete nel ring (ride). Ma la mia esperienza “svizzera” mi suggerisce che pugni e artigli non sono mai efficaci quanto un dialogo aperto, basato su argomenti concreti, fatti e cifre. Proprio di questo, ogni tanto, il dibattito alle nostre latitudini è un po’ carente e qui mi inserisco per dare un contributo: con meno parole, più fatti».

Dobbiamo essere incisivi nelle nostre attività: inutile lanciare slogan accattivanti e accorgersi a posteriori che alle spalle non c’è nessuno

Da presidente non toccherà, prima o poi anche a lei, essere un po’ individualista e decisionista?
«Decisionista senz’altro, e sarò in prima fila a difendere l’operato, i toni e le posizioni di AITI. Ma per aver credibilità il lavoro di squadra a monte è determinante, per intercettare i problemi degli associati e fissare priorità. Dobbiamo essere incisivi nelle nostre attività: inutile lanciare slogan accattivanti e accorgersi a posteriori che alle spalle non c’è nessuno».

Pesenti ha più volte sottolineato l’importanza di rivedere l’orientamento scolastico, affinché risponda meglio alle esigenze delle aziende e al mondo del lavoro. Qual è la sua posizione?
«L’allineamento tra formazione e mondo dell’economia è strategico, soprattutto di fronte alla carenza di manodopera qualificata. Affronteremo questo tema attraverso misure concrete. Non è ragionevole formare profili che faticano sempre più ad affermarsi sul mercato del lavoro e sfavorire l’accesso ad alcune formazioni, importando al contempo manodopera qualificata: è uno spreco di risorse».

Entriamo un po’ nel suo mondo, quello delle industrie ticinesi. Qual è lo stato di salute?
«Dipende da settore a settore, e spesso da azienda ad azienda. L’industria di casa nostra spazia da grandi imprese con un’ampia diversificazione a imprese più piccole, specializzate, con mercati molto diversi tra loro. Il momento è difficile, ma ciò che colpisce è la resilienza e la capacità di adattamento. Detto questo, dobbiamo lavorare per migliorare le condizioni quadro anche qui in Ticino».

Il settore secondario ha sempre tratto la sua forza dal frontalierato. Ora le cose stanno cambiando e chi arriva da oltre frontiera punta spesso al terziario. Questa realtà come si affronta?
«Le cifre del frontalierato nel settore secondario sono praticamente stabili da oltre 40 anni, mentre sono numerosi i residenti in Svizzera con posizioni di responsabilità. Per fare un esempio, nella mia azienda, su 38 collaboratori, l’83% è residente. Nel settore terziario la situazione è diversa, ma il nuovo accordo fiscale sta già iniziando a riequilibrare il quadro. Il resto va affrontato con una formazione promettente per i nostri giovani».

Possiamo dire che in Svizzera e in Ticino c’era un’industria «pre dazi» e una «post dazi»?
«Non credo, la situazione era già complessa e difficile prima. Beninteso, i dazi costituiscono un problema enorme e molto dipenderà da se e quando la nostra diplomazia troverà un accordo con l’amministrazione USA. Nel frattempo, però, la palla è nel nostro campo: dobbiamo innovare, diversificare i mercati, trovare soluzioni con clienti e partner».

Mi incuriosiscono i meccanismi e nutro grande rispetto per chi si mette al servizio della cosa pubblica

Qual è il suo rapporto con il mondo della politica cantonale?
«Fino a qualche mese fa era quello di cittadina attenta e interessata. Ora il ruolo è cambiato: mi incuriosiscono i meccanismi e nutro grande rispetto per chi si mette al servizio della cosa pubblica».

Se dico che l’economia, per il tramite delle associazioni di categoria, ha mostrato voglia di fare politica, ma raramente ne ha avuto il coraggio, come replica?
«Che ha ragione, e che cambierà. L’economia ha tanto da dare e da dire, e negli ultimi mesi abbiamo già visto segnali di cambiamento. La voce di un’economia unita - e apprezzo molto la collaborazione sempre più stretta con la Cc-Ti - che dialoga con tutti gli attori è fondamentale per riavvicinarci alla politica e alla società civile. Non con slogan o rivendicazioni, ma rimboccandoci le maniche a favore di soluzioni nell’interesse del Cantone e dei suoi cittadini. Alla fine, possiamo girarci intorno quanto vogliamo, ma il benessere lo creano le imprese che operano sul territorio. Se stanno bene loro, stiamo meglio tutti».

Intanto sull’iniziativa per ridurre i dipendenti pubblici c’è anche il sostegno del suo predecessore. Questo impegna la sua AITI?
«Il piano finanziario del Cantone prevede a medio termine perdite superiori ai 700 milioni di franchi. In questo contesto – accompagnato da una burocratizzazione di troppi processi – ha senso anche un’iniziativa che non chiede licenziamenti, ma propone di non sostituire un terzo di coloro che vanno in pensione. Da destra a sinistra, è arrivato il momento di rompere con i tabù e affrontare apertamente tutte le possibili soluzioni».

Come si inserisce da imprenditrice nel discorso delle finanze cantonali in rosso e il dilemma della quadratura del cerchio sui conti pubblici con un disavanzo di 700 milioni?
«Lo squilibrio (previsto) di questa entità è pericolosissimo. Ma è un’occasione d’oro per chiederci se tutto quello che fa il Cantone sia ancora davvero prioritario. In tempi sereni la politica non ha la forza (e l’interesse) di chiederselo. Ora sarà imprescindibile e potrà costituire la base per una revisione dei compiti di un Cantone che guarda avanti. “Abbiamo sempre fatto così” non vale più».

Ha un suggerimento o una richiesta da trasmettere al Consiglio di Stato e ai principali partiti?
«Sì. Come economia siamo pronti a fare la nostra parte. Nel rispetto dei rispettivi ruoli, serve dialogo e ascolto reciproco. Abbiamo bisogno di un Ticino moderno, coeso, che avanza, capace di fare riforme. E, se posso permettermi: molto più coraggioso di quello degli ultimi anni».

In questo articolo: