«Non ci sono lingue migliori di altre, così cresce la propaganda razzista»

«Il razzismo più violento e difficile da sradicare è quello di chi crede che esistano popolazioni inferiori nella comprensione della realtà, nell’elaborazione di ragionamenti e nella comunicazione di idee. Siccome il linguaggio è centrale in tutte e tre le funzioni, la linguistica non può essere neutrale». È questo il punto di partenza scelto dal linguista Andrea Moro per spiegare perché dietro le parole molto spesso si nascondono terribili discriminazioni.
Professor Moro, lei sostiene che il razzismo discende anche dal linguaggio? Che cosa significa?
«È un fatto storico. La nascita del razzismo contemporaneo, e penso in particolare all’esaltazione della razza ariana, avviene nel campo della linguistica. Nell’Ottocento, con un percorso alla rovescia, si tentava di ricostruire le cosiddette “lingue originarie”, ed era stata per questo individuata una lingua nobile, la lingua “ariana”, appunto. La tesi venne lanciata dallo studioso bavarese Friedrich Max Müller, il quale sostenne che esistono razze superiori proprio perché ci sono lingue superiori. Müller si accorse di aver detto una sciocchezza e ripudiò, mentre era ancora in vita, la sua teoria. Ma intanto, purtroppo, la politica se n’era appropriata. E ne aveva fatto l’innesco di forme di propaganda razzista».
Ma che cos’è esattamente il “razzismo linguistico”? In che modo può essere spiegato?
«Ci sono due idee che, prese singolarmente, possono apparire innocue ma che, unite tra loro, diventano un gigantesco problema. La prima di queste idee dice che esistono lingue migliori di altre: più complesse, più astratte, più musicali. Quante volte abbiamo sentito una cosa del genere, quante volte l’abbiamo pensata e magari detta noi stessi senza provare alcuna vergogna. Idem per la seconda idea, la quale afferma che, a seconda della lingua parlata da ciascuno, la realtà si vede o si percepisce in modo diverso. Se queste due visioni si fondono, immediatamente si costruisce una graduatoria di popolazioni, si crea cioè una classifica di persone superiori ad altre. Poiché, implicitamente, si afferma che la lingua migliore non può che essere supportata da un cervello e da un organismo migliori».


Come può un linguista aiutare a combattere la discriminazione razziale?
«Innanzitutto, riaffermando sempre e in ogni circostanza che la diversità linguistica non può produrre differenze significative tra i singoli dal punto di vista del pensiero. Se qualcuno obiettasse a un filosofo africano di non essere riuscito, a causa della sua lingua, a raggiungere la raffinatezza di ragionamento di un filosofo tedesco, farebbe semplicemente un discorso razzista, perché imputerebbe a una persona non di parlare male, ma di non saper pensare».
Tuttavia, non si può negare che le differenze linguistiche esistano.
«Certamente, ma non sono le uniche visibili e riconoscibili. E, soprattutto, non giustificano in alcun modo una supremazia di alcuni parlanti su altri. Non esistono lingue geniali. Semmai, ci sono commenti geniali a lingue normali. Il greco antico è stato studiato per 2.400 anni, è del tutto ovvio che su di esso si siano accumulate riflessioni straordinarie. Ma anche in greco antico si potevano dire colossali fesserie. È il pensiero che conta, non la grammatica con il quale lo si esprime».
Parlavamo di differenze riconoscibili.
«I biologi hanno dimostrato che, sul piano genetico, le razze non esistono, e su questo siamo tutti d’accordo. Rimane però il fatto che alcuni tratti ci differenziano, tratti ai quali dobbiamo dare un nome. Possiamo decidere di non fare riferimento alla razza e di parlare di etnia, ma cambia poco. La sostanza rimane, al di là delle scelte lessicali. Per questo non sono mai stato realmente interessato al dibattito sull’uso della parola razza, credo che sia più utile e importante impegnarci a fondo a negare le differenze di pensiero, d’intelligenza, quelle sì profondamente razziste».


Non serve, allora, abolire la parola “razza” dal vocabolario, come pure qualcuno ha proposto di fare?
«Mi sembra un falso problema. Le parole devono innanzitutto essere chiare. Se non vogliamo usare la parola razza va bene, troviamo però qualcosa che ci permetta di nominare le differenze per riconoscerle, e non farle diventare un punto di discriminazione».
Che cosa pensa del politically correct?
«Il problema del politically correct non è linguistico ma politico. Oggi si discute molto del cosiddetto “neutro maschile”, si chiede di usare simboli come lo Schwa o l’asterisco per identificare un insieme fatto di uomini e donne. Trovo che sia una forzatura. La lingua turca non ha genere, ma pochi di noi sono convinti che a ciò corrisponda un trattamento egualitario nella società turca. Credo che altre cose contino in misura maggiore: le differenze di stipendio, ad esempio, o le posizioni apicali. Stipendi uguali e più donne al comando sono certo molto più importanti e significative di un maquillage linguistico che si accanisce sui dettagli ma lascia del tutto intatta la sostanza. Il linguista svizzero Ferdinand de Saussurre disse una volta che nella lingua non esistono se non differenze. L’antidoto al razzismo è riconoscere il valore di questa differenza. A Milano, entrando nel museo della Shoah, campeggia la parola “indifferenza”. È l’indifferenza ciò che causa il razzismo».
Tornando alla questione iniziale, possiamo affermare che non esiste una lingua migliore di altre? Che tutti possono dire tutto, ciascuno con le proprie parole?
«Sicuramente sì. Il cervello umano riconosce le lingue come tali. Tutte, nessuna esclusa, come dimostra l’apprendimento spontaneo dei bambini, i quali hanno una predisposizione geneticamente determinata a imparare qualsiasi lingua, indipendentemente da quella parlata dai genitori. Le istruzioni con le quali nasciamo sono quindi compatibili con quelle di ciascuna lingua. La dimostrazione sta nel fatto che non possiamo imparare le lingue impossibili, quelle costruite a tavolino, le stesse che il cervello rifiuta perché non le distingue».
Allievo di Chomsky, ha studiato a Ginevra
Andrea Moro è professore ordinario di linguistica generale e rettore vicario della Scuola Superiore Universitaria IUSS di Pavia, dove ha fondato e ha diretto, per 6 anni, il centro di ricerca in Neurocognizione, Epistemologia e Sintassi Teorica (NEtS). Laureato a Pavia in lettere classiche, studente Fulbright negli Stati Uniti, ha conseguito anche il «Diplôme d'études supérieures en théorie de la syntaxe et syntaxe comparative» all’Università di Ginevra. Studioso della teoria della sintassi delle lingue umane e del rapporto tra linguaggio e cervello, è stato varie volte visiting scientist al MIT e ad Harvard. Gli ultimi suoi libri sono La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzimo (2019) e I segreti delle parole, con Noam Chomsky (2022), editi da La Nave di Teseo.