«Non conosciamo la morte, ma sappiamo cos’è la vita»

Sono i giorni ideali, questi, per riflettere sulla vita e sulla morte, sui nostri sentimenti, sulla gioia e sul dolore, trovando le parole giuste per descrivere tutto questo, tra i silenzi, altrettanto fondamentali. Anche La Domenica del Corriere ha dedicato una puntata al tema, partendo proprio da questa riflessione di Gianni Righinetti, con tre ospiti d’eccezione, lo psichiatra Graziano Martignoni, Michele Ravetta, frate cappuccino del Convento del Bigorio, e don Gianfranco Feliciani, arciprete di Chiasso.
Un senso di pace
Come si affronta la morte, se non con coraggio? È questo il primo spunto offerto da fra Michele Ravetta. «La nostra vita deve essere improntata sul coraggio», ha sottolineato. «La morte ci abita dentro nella misura in cui la nostra vita va avanti e si sviluppa. La morte, insomma, matura con noi, in parallelo. Non significa pensare tutti i giorni che dovrò morire, ma piuttosto è dare valore all’esperienza della vita. La morte ci interroga, è la fine di qualcosa, porta quindi con sé un vuoto, il senso di abbandono, la solitudine che le persone, morendo, lasciano. E il coraggio diventa essenziale per riprendere il cammino con ritrovato vigore». Graziano Martignoni in effetti segue il discorso e conferma che la morte ci abita dentro fin dall’inizio. «La nostra condizione di umani ci pone di fronte al tema della fine sin da bambini. È qualcosa di cui non possiamo liberarci. Ma il tutto va precisato: la morte e la vita sono come due fratelli, e tale fratellanza dura una vita intera. Non siamo fatti per morire, ma per nascere, affermava Hannah Arendt. È chiaro che, quando succede qualcosa che interrompe questo legame - un incidente, una malattia -, ci troviamo a dover ridare senso alla vita, ridare vita alla vita. Io stesso lo vedo nelle case per anziani, con persone che hanno perso il senso della vita. Ma è fondamentale ritrovarlo, pur riconoscendo la morte che ci abita». Morire - ci ricorda Martignoni - è un fatto individuale, «ma la morte è un fatto culturale, di narrazione, che ci supera». E cita Pessoa, secondo cui «la morte è la curva della strada, e morire è solo non essere visto». Don Feliciani aggiunge un ulteriore aspetto all’esperienza della morte, ma anche del rito a essa associato. «Se in chiesa ci vanno quelli che fanno una scelta di fede, in cimitero ci vanno tutti. E questo porta a un recupero della fraternità, del senso di comunità». Un aspetto che contrasta con quello che Feliciani ribattezza «individualismo esasperato». «Incontrarci al cimitero fa nascere subito un senso di fraternità, di pace. Poi la questione della morte, in sé, è terribile, certo, perché è la fine. Ma è affrontando la verità, anche se dura, che riesci a giungere a un senso delle cose, alla pace, ecco. E i nostri morti li avvertiamo vivi». Se Martignoni cita Pessoa, Feliciani cita il filosofo Gabriel Marcel: «Amour veut dire toujours. Quando amiamo, facciamo una cosa che nemmeno la morte ci porterà via».
Certe ferite non si rimarginano
C’è un luogo comune - che spesso viene utilizzato di fronte alla morte -, secondo cui il tempo sarebbe in grado di guarire tutto, ogni dolore. Fra Ravetta fa una distinzione: «Dipenda dall’intensità del dolore. Il tempo non è un passepartout. Avendo lavorato per tanti anni in pediatria oncologica, come si fa a dire ai genitori di un bambino morto anzitempo che il dolore scolorirà con il tempo. Certo, il ricordo di quel dolore può anche sfilacciarsi, e allora dobbiamo fare in modo, comunque, che il lutto non diventi patologico, facendo il possibile per allontanarsi da esso pur senza rimuoverlo. Non possiamo vivere per quel dolore». Sarebbe un po’ come morire. Don Feliciani conferma che certe ferite non si rimarginano mai. Ma aggiunge: «L’amore guarisce, ecco, questo sì. A Chiasso celebro tanti funerali - sono più di cento all’anno -, e tante persone partecipano al rito. Abbiamo sempre meno matrimoni e battesimi, ma quasi tutti chiedono comunque il rito sacro. E a chi partecipa ammetto di sapere che non tutti sono cristiani credenti, ma che so anche che se sono venuti è per un gesto d’amore. Sono credenti nell’amore. Quel Dio che ci ha rivelato Gesù non è altra cosa, è l’amore infinito. Cosa diciamo, d’altronde, quando amiamo? Diciamo parole che sanno di eternità». Martignoni, dal canto suo, aggiunge che «la vita è un dono, pur accompagnato dalla morte, e lo è fino alla fine, fino al bordo, quando sei pronto per andartene. Attraverso la ritualità posso alleviare il dolore, però questo deve essere accompagnato dalla gratitudine, non dalla melanconia». Fra Ravetta sottolinea, in effetti, come ogni giorno sia un dono. «Della morte non sappiamo nulla. Sappiamo cos’è la vita, la nostra vita, e che valore irripetibile ha ogni giornata».
Il ruolo del silenzio
Centrale, anche nella ritualità, è il ruolo del silenzio. Un tema introdotto da Righinetti e subito inquadrato da Martignoni. «È una condizione fondamentale dell’uomo. Bisogna essere in silenzio per ascoltare. Il silenzio ti permette di ritrovare la tua voce, il messaggio che vi è stato depositato». Per fra Ravetta il silenzio vale una pausa, «per tornare con i piedi per terra». «È stare lì, con in mano la vita, guardandosi dentro. E si comunica comunque, perché non siamo mai assenti da noi stessi, neppure nel silenzio. L’esperienza del silenzio è piuttosto un modo per trovare le parole». «È così», aggiunge Martignoni, che va oltre: «La parola viene musicalizzata nel silenzio. Il silenzio prepara nuove parole, le accoglie, perché le migliori vengono da dentro. Io stesso lo posso testimoniare: nel silenzio del mio giardino, che è l’anima, ci sono molti fiori, c’è anche qualche erbaccia, certo, però è un giardino che devo comunque proteggere, garantendo il silenzio in modo da sentire le vibrazioni dell’amore». E Don Feliciani ci mette in guardia dal silenzio come bene di consumo, come virtù morale. «Il silenzio è l’atteggiamento istintivo che l’essere umano assume davanti al mistero della vita».