Lugano

Orologi e macchinone con i crediti COVID: condanna confermata

Il Tribunale federale non ha ribaltato la sentenza d'Appello a carico di un imprenditore italiano residente in città che aveva ottenuto illecitamente gli aiuti poi utilizzati per acquisti di lusso
© CdT/Chiara Zocchetti
Nico Nonella
02.05.2024 15:45

Aveva utilizzato parte dei crediti COVID ottenuti illecitamente – parliamo di oltre 600 mila franchi – per acquistarsi un Range Rover da quasi 60 mila franchi e una decina di orologi di lusso del valore di circa 90 mila franchi. Per questo motivo, l’11 dicembre 2020 un imprenditore italiano di origini mediorientali, oggi 51.enne era stato condannato in primo grado a 28 mesi di detenzione, di cui due sospesi per due anni, oltre all’espulsione per 5 anni, per i reati di truffa, truffa, falsità in documenti, amministrazione infedele aggravata, esercizio abusivo della professione di fiduciario. Dopo un passaggio in Appello, il 15 settembre 2022, che gli era valso il proscioglimento dall’imputazione di esercizio abusivo della professione di fiduciario e l’annullamento dell’espulsione, lo scorso 8 aprile il Tribunale federale ha scritto la parola fine a questa vicenda confermando la decisione della Corte di appello e revisione penale.

Alla sbarra in primo grado, lo ricordiamo, oltre al 51.enne difeso dall’avvocato Nadir Guglielmoni, era finito anche il suo fiduciario (al quale erano stati inflitti 12 mesi integralmente sospesi) e il contabile, un pensionato luganese accusato di complicità in truffa e assolto per parte dei fatti imputatigli.

Come riportato nell’atto d’accusa del procuratore pubblico Daniele Galliano, i due imputati principali avevano fatto carte false per ottenere i prestiti COVID-19 presentando alle banche i dati contabili «taroccati» verso l’alto di due società con sede a Lugano amministrate dal 51.enne. La prima richiesta risale a fine marzo 2020 e riguardava una società anonima attiva nella consulenza e nell'intermediazione nel campo della consulenza aziendale in Svizzera e all’estero; la seconda ad inizio aprile dello stesso anno e concerneva una società di tecnologia e comunicazione nell’ambito dell’energia in Europa, Medio Oriente e Africa. I due prestiti, da 300 mila franchi l’uno, erano stati ottenuti da due diversi istituti di credito. Parte del denaro, circa 490 mila franchi, era poi stata restituita.

Dopo la sentenza di Appello, il 51.enne aveva ricorso al Tribunale federale chiedendo il proscioglimento da tutte le imputazioni. In particolare, l’uomo aveva contestato la condanna per il reato di truffa negando l'adempimento del presupposto dell'inganno astuto. A suo dire, un semplice controllo da parte degli istituti di credito «avrebbe permesso di riscontrare una bassa marginalità tra i ricavi e gli acquisti menzionati in tali documenti» e quindi di accorgersi della loro mancanza di plausibilità.

Il TF, come già fatto per un caso analogo (una maxitruffa da 1,5 milioni, ne avevamo riferito il 3 aprile) ha però ricordato che la concessione dei crediti COVID-19 «soggiaceva a una procedura semplificata e standardizzata, la quale era in sostanza imperniata su un'autodichiarazione del richiedente. Tali crediti venivano infatti erogati sulla sola scorta delle informazioni fornite dal richiedente stesso in merito all'adempimento delle condizioni per beneficiare degli aiuti transitori disposti dal Governo, rispettivamente alla cifra d'affari realizzata. Non era prescritta né prevista una loro verifica da parte della banca, chiamata unicamente a effettuare un esame della completezza formale della richiesta di credito». Insomma, «gli istituti di credito interessati non erano quindi tenuti a verificare la plausibilità dei bilanci e dei conti economici allegati alla domanda, potendosi come visto limitare al controllo della completezza e della formale correttezza delle informazioni contenute nel modulo per la richiesta del credito».

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