Perle nascoste: luoghi, cose e storie che turisti e residenti forse non conoscono

Se camminando per il Mendrisiotto vi imbattete in delle «perle nascoste» potete scriverci a [email protected]. La redazione raccoglierà i vostri suggerimenti e sarà anche volentieri a disposizione per tentare di raccontarne la storia o, perlomeno, scoprire qualcosa in più su quei luoghi.
La grotta con la porta che si vede da lontano

Il Monte Generoso è ricco di grotte. Molte di esse potrebbero trovare spazio in questa rubrica in quanto sono indubbiamente delle perle e sono anche piuttosto nascoste.
Oggi vogliamo però parlavi di quella nota come Tri Böcc (o anche come Casa dei Pagani). Si trova nella parete calcarea sopra le cantine di Mendrisio ed è visibile anche dal fondovalle per il suo aspetto, motivo del suo nome. La caverna di una quarantina di metri è infatti protetta da un muro con tre buchi (due finestre e un ingresso).
La costruzione data probabilmente del XV secolo ma, non essendoci documenti scritti che spiegano le sue origini, la data non è certa. È anche questa incertezza ad aver alimentato le leggende sul suo conto. C’è chi sostiene fosse un vecchio rifugio (da lì il nome alternativo Casa dei Pagani, come quelle che si trovano in Valle di Blenio), ma anche chi racconta storie legate a streghe e maghi. Molte di queste vicende sono collegate anche a un’altra grotta, che si trova poco lontano, quella del Tanun, chiusa anch’essa da un muro, ma più basso. Un «trucco» per vedere i Tri Böcc è guardare i vigneti di Somazzo e poi spostare lo sguardo sulla sinistra, alla stessa altezza.
La «matta» che costruì tra le rocce del Generoso

Si chiamava Carla Nobili Vitelleschi ed era italiana, di Roma, ma aveva origini olandesi. La sua vita è però legata anche al Mendrisiotto, in particolare al Monte Generoso. È infatti sulle sue pendici, quasi in vetta, che poco meno di 100 anni fa decise di costruire una casa. Una casa che le valsa il soprannome di «matta» e che oggi è nota ai più come Casa (o cà) dala mata. Oppure Casa della marchesa o della contessa, perché la signora aveva un titolo nobiliare. Alle nostre latitudini è però diventata «matta» perché aveva deciso di costruirsi una casa in un luogo sì dal panorama mozzafiato, ma per nulla ospitale: sul lato più ripido e inospitale del Monte Generoso. Il suo progetto era proprio «una roba da matti», dicevano tutti.
La storia che ha portato alla costruzione dell’edificio - che è di dimensioni modeste - è ben documentata. Per poter realizzare il suo progetto la donna dovette infatti richiedere dei permessi appositi al Patriziato di Rovio, documenti che esistono ancora (e che abbiamo visionato). La sua richiesta concerneva l’edificazione di una piccola casa a picco sulle rocce in località Baraghetto. A motivare il progetto vi era il desiderio di crearsi un luogo tranquillo e di riposo, in cui potesse concentrarsi sugli studi in filosofia religiosa a cui si dedicava.
Per prendere una decisione furono necessarie diverse sedute del Patriziato, che alla fine concesse in affitto alla marchesa la parte inferiore della cima del Baraghetto (circa 10 metri quadrati) per costruire un piccolo edificio ad uso privato. L’affitto era di 50 franchi l’anno e il contratto sarebbe stato valido per 25 anni, anche se sulla prima versione del documento si parlava di 50 anni, ma la cifra è stata cancellata e corretta a mano. Il Patriziato accordò alla donna anche il permesso di estrarre dalla montagna stessa le pietre necessarie per realizzare la costruzione.
Attorno al singolare progetto della marchesa nacquero quasi immediatamente storie e leggende. Anche perché quegli anni a cavallo delle due guerre erano contraddistinti da difficoltà sociali e instabilità politica. In molti dubitavano quindi che la donna fosse davvero una studiosa in filosofia religiosa e tendevano più che altro a crederla una spia che dal Generoso poteva osservare una vasta porzione di Mendrisiotto e Luganese, stando a pochi passi dall’Italia. In quegli anni l’Italia inoltre non nascondeva il suo desiderio di annettere il Ticino al suo territorio.
Nel recente passato la Cà dala mata è stata oggetto di un restauro. Tra il 2001 e il 2010 il Patriziato di Rovio ne ha rinnovato in particolare la copertura.
Pontegana e le streghe del castello

«Dove si trova il colle di Pontegana?» potrebbe essere la domanda di un maestro ai suoi allievi. Ma forse nemmeno molti adulti saprebbero rispondere. E chissà se qualcuno sa che un tempo sul colle troneggiava un castello, ormai ridotto a un cumulo di macerie.
I ruderi del castello di Pontegana si trovano a Balerna sul colle vicino all’uscita dell’autostrada a Chiasso. Rappresentano una delle poche testimonianze ancora visibili del sistema di difesa nel Basso Mendrisiotto sin dal periodo romano. Il maniero era uno degli anelli della linea di fortificazioni che comprendeva quelli di Castel San Pietro, di Morbio Inferiore, di Morbio Superiore e probabilmente quello che sorgeva in zona «al Caslasc» a Balerna, residenza nell’ottavo secolo del signore longobardo Guniataut Rotcoassi.
Il castello di Pontegana, che sorgeva a fianco dell’oratorio dell’Addolorata (che sorge a sua volta sulle fondamenta del precedente luogo di culto dedicato a Sant’Ilario, già cappella del complesso fortificato), viene citato per la prima volta in un documento redatto da Totone da Campione come proprietà di Ragiperto da Pontegano, figlio di Ragifrit, nel 789 dopo Cristo. La sua origine è però più antica: difficilmente collegabile alla presenza degli Insubri – una tribù gallica stanziata nella regione già qualche secolo prima di Cristo – ma più probabilmente bizantina e databile attorno al 400 dopo Cristo. La sua posizione strategica è evidente poiché sbarrava l’accesso alla Valle di Muggio e controllava i movimenti attraverso il Mendrisiotto in direzione di Como.
Tramontato il dominio longobardo, attorno all’anno mille la fortificazione passò sotto il controllo del vescovo di Como e, nel 1126, venne espugnata dai Milanesi che riuscirono a conquistarla solo grazie al tradimento del corrotto castellano Gisalberto Clerici. L’edificio non fu distrutto e restò abitato almeno sino al XIV secolo quando il vescovo di Como Bonifacio da Modena (a cui è pure legata la storia della Chiesa Rossa di Castel San Pietro) ordinò alcuni lavori di ristrutturazione. Altre testimonianze dell’attività del maniero risalgono al XVI secolo. Successivamente una parte dei suoi ruderi venne utilizzata per la costruzione della facciata della Collegiata a Balerna, mentre, nel 1962, un’altra parte fu abbattuta per far posto all’attuale caseggiato, riciclando parte delle mura nella costruzione della ferrovia e dell’autostrada sottostante il promontorio del castello.
Numerose sono le leggende legate a Pontegana e al suo promontorio, sulla sommità del quale sono ancora visibili non solo i ruderi del castello ma anche alcuni sarcofagi di pietra risalenti all’epoca romana. La tradizione popolare individua infatti a Pontegana uno dei numerosi «barlott» ovvero uno dei luoghi in cui nottetempo le streghe si riunivano per adorare il diavolo e ricevere da lui i poteri necessari per compiere il male. Nel loro studio sui processi per stregoneria nel Distretto del Mendrisiotto, Alberto Cairoli e Giovanni Chiaberto citano Pontegana nell’elenco dei luoghi visitati da un esorcista.
L'omaggio mendrisiense ai caduti e il corteo col teschio

A Mendrisio c’è un monumento dedicato ai caduti italiani durante la Prima guerra mondiale. Si trova al cimitero e fu posato nel 1921. A realizzarlo fu lo scultore ticinese Fiorenzo Abbondio.
Si tratta di un omaggio ai combattenti italiani deceduti durante il conflitto simile a quello esistente nel parco dell’Ospedale italiano di Lugano, di cui vi abbiamo parlato pochi giorni fa in una puntata di questa rubrica. E come le statue presenti all’esterno del nosocomio luganese, il monumento è stato a suo tempo protagonista indiretto di alcune polemiche.
Il memoriale realizzato nella città sul Ceresio fece discutere perché c’è chi ci vide un tentativo di propaganda fascista. A far discutere a Mendrisio fu invece il corteo organizzato per l’inaugurazione del monumento, o meglio alcuni fatti successi quel giorno.
A raccontare l’accaduto - e analizzarlo partendo da come i quotidiani del tempo ne riferirono - è ad esempio un recente lavoro di diploma della SUPSI a cura di Stefano Negrinelli. Nel testo si ricostruisce la giornata dell’inaugurazione, il 18 giugno del 1922, che vide l’organizzazione di un corteo a cui parteciparono decine di delegazioni, dai pompieri di Mendrisio alle autorità consolari, da quelle comunali alle bande liberali cittadine, oltre a un nutrito numero di italiani residenti inTicino o oltre confine, «di cui moltissimi in divisa militare di reduci».
Alla sfilata che partì dalla stazione presero parte anche «bande armate di fasciti, inquadrati militarmente, con le camicie nere, impresse di vari motti «me ne frego», «a morte», armate di manganelli e gagliardetti con in cima all’asta il teschio», si legge nel testo, citando Bernardi-Strozzi. Questei gruppi entrarono in Ticino da Ponte Tresa e si resero protagonisti di «minacce, insulti e addirittura pestaggi a socialisti incontrati per la via» sul tragitto da Lugano a Mendrisio.
Nei giorni successivi la stampa ticinese si divise sull’accaduto. C’è chi condannò i fatti ed espresse preoccupazione per l’intervento delle squadre fasciste su suolo elvetico, e chi minimizzò gli eventi. Per l’occasione venne ricordato l’episodio relativo a fascisti che deposero una corona di fiori ai piedi del monumento sul lungolago luganese dedicato a Guglielmo Tell, i fiori vennero però gettati nel lago da ignoti durante la notte. Quest’ultimo gesto fu biasimato da più parti. In merito alla lettura degli eventi proposta a suo tempo dal Corriere del Ticino nel lavoro di diploma si legge anche che questo giornale esaltò «l’atmosfera di fratellanza tra le nazioni che si è vissuta a Mendrisio», tralasciando «molti fatti» di quel giorno.
La masseria di Novazzano «nascosta» nel canton Berna

Questa «perla del Mendrisiotto» è talmente nascosta che per trovarla bisogna varcare il Gottardo e andare nel canton Berna, per la precisione a Brienz.
Da quasi 18 anni la masseria della Pobbia di Novazzano si trova infatti lì, all’interno del museo all’aperto del Ballenberg, una realtà che dagli anni ‘70 accoglie antiche costruzioni contadine svizzere per dar loro una seconda vita educativo-culturale, offrendo la possibilità di una visita che è anche un viaggio nel tempo e nelle radici rurali del Paese.
All’interno di questo parco c’è anche un’area dedicata al Ticino, con 10 testimonianze. Lì nel 2003 è stata «spostata» la masseria Pobbia di Novazzano, che da tempo versava in stato di abbandono.
Il nucleo originario del complesso a corte della Pobbia era composto da un’abitazione di due soli piani e una stalla con fienile, edificate nel XIV secolo. Nei decenni successivi la masseria venne progressivamente ampliata e adeguata alle esigenze economiche delle varie epoche fino a raggiungere le dimensioni attuali. Misura 44 metri di lunghezza, comprende 50 locali e il suo tetto ha una superficie di 1.000 metri quadri, si spiega nella scheda del museo dedicata alla masseria. Per trasportarla da Novazzano a Brienz tra il 2002 e il 2003 ci sono voluti 200 camion.

La storia della masseria è legata sia a quella di una famiglia che in Ticino ebbe un ruolo cruciale in passato, la famiglia Turconi, sia a un’attività che ha caratterizzato i secoli scorsi della regione: quella legata al tabacco e alla sua coltivazione. «Nel 1701, i Conti Turconi acquistarono il podere di 21 ettari. Nel 1824, Alfonso Maria Turconi lasciò con disposizione testamentaria tutti i suoi beni immobili del Mendrisiotto – dunque anche la masseria – a una fondazione con lo scopo di costruire il nuovo ospedale distrettuale. Nel 1845, fu aggiunta una grande bigattiera per la bachicoltura (l’allevamento dei bachi da seta, ndr). Negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, la coltivazione di tabacco divenne un’attività redditizia. Le foglie venivano messe a seccare sulle lobbie della masseria. Un tempo, quattro famiglie vivevano nella casa colonica, per un totale di ventotto persone. Nel 1966 la masseria venne affittata dalla famiglia Zambetti. Dato lo stato precario della costruzione, verso la fine degli anni Ottanta la famiglia l’abbandonò, pur continuando a lavorarne i terreni. Una camera rimase occupata ancora negli anni Novanta da un fratello del fittavolo che occasionalmente dava una mano nei campi. Un altro vano veniva utilizzato da giovani come luogo di ritrovo».