Pietro Grasso: «In un bidone a Scairolo vecchio trovammo due milioni di dollari»

Pietro Grasso, già presidente del Senato italiano e procuratore nazionale antimafia, è uno dei magistrati che più in profondità conosce la storia di Cosa Nostra e, più in generale, della criminalità organizzata della Penisola. Negli ultimi due giorni, Grasso è stato in Ticino dove ha incontrato prima gli studenti liceali di Mendrisio e poi la commissione Giustizia e Diritti del Gran Consiglio. Il Corriere del Ticino lo ha intervistato in una pausa di questo viaggio nella Confederazione.
Presidente Grasso, qual è stato
il suo rapporto con la Svizzera e con il Ticino negli anni dell’attività di
magistrato? Ricorda qualche episodio curioso o qualcosa che la colpì in
particolare?
«Il mio rapporto con la Svizzera
comincia con l’indagine “Pizza Connection” del pool antimafia di Palermo e con
il maxi-processo iniziato nel febbraio del 1986 nell’aula bunker
dell’Ucciardone e nel quale ero giudice a latere. Una prima volta fui incaricato
di venire a sentire per rogatoria Vito Roberto Palazzolo (considerato all’epoca
il cassiere di Totò Riina e Bernardo Provenzano e oggi residente in Sudafrica,
ndr) e il turco Paul Eduard Waridel, i quali erano implicati nel traffico di
eroina dalla Sicilia verso gli Stati Uniti in quanto ne depositavano in
finanziarie e banche luganesi i proventi; un secondo momento fu quando, durante
la collaborazione del pentito Salvatore Cangemi, questi ci disse - per dare
credibilità al suo racconto - che avrebbe potuto farci trovare molti soldi in
Svizzera. Così arrivammo a Lugano, ma invece di andare in una banca Cangemi ci
portò in collina, sopra Scairolo vecchio, e ci disse di scavare nei pressi di
un cascinale dove effettivamente trovammo, in un bidone, due milioni di dollari
USA. Ovviamente gli chiesi perché li avesse sotterrati proprio in Svizzera, e
lui mi rispose che, secondo Riina, i soldi in Svizzera sarebbero stati al
sicuro. In effetti, allora, la Confederazione era un rifugio ideale per il
denaro sporco, il quadro normativo era carente e gli accertamenti impossibili.
Poi, per fortuna, le cose sono cambiate».
Nel libro “Il mio amico
Giovanni” lei racconta in un passaggio anche di essere stato a Lugano più volte
per incontrare i magistrati ticinesi. Che rapporto aveva con loro?
«Direi ottimo. Quando ero
procuratore nazionale antimafia gli scambi informativi erano costanti,
soprattutto con la Procura federale e con il collega Pierluigi Pasi. Mandavamo
numerose richieste di accertamenti e c’era un’ottima collaborazione giudiziaria.
Sono venuto io a Lugano e sono venuti i magistrati svizzeri a trovarmi a Roma.
Questo è un dato importantissimo: vedersi e parlare crea empatia, favorisce i
risultati. Una telefonata dietro la quale c’è un solido rapporto personale
supera le pastoie accelerando i risultati. Ce lo ha insegnato Giovanni Falcone,
il quale iniziò così la collaborazione con i magistrati americani e con Carla
Del Ponte».
Che cos’è stata e che cos’è oggi
la Svizzera per le mafie?
«In passato, la Confederazione è
stata sicuramente un polo attrattivo per le mafie, la cassaforte delle
organizzazioni criminali. Qui i soldi erano al sicuro perché non c’era una
legislazione che potesse permetterne il sequestro. Oggi è diverso, oltre a rimanere
un rifugio per il denaro che arriva però già ripulito dai paradisi bancari, un
luogo nel quale attivamente si opera in un continuo passaggio tra attività
illegali e legali. I mafiosi, oltre a trafficare droga, trafficano anche armi
che comprano in Svizzera per rifornire le cosche. Non solo: operano
investimenti nell’economia legale, soprattutto in alcuni settori:
l’alberghiero, la ristorazione, l’edilizia pubblica e privata, l’immobiliare.
La Svizzera, per quello che posso sapere io, è anche una base operativa in
collegamento con altri Paesi europei, come la Germania, ad esempio per i locali
di ‘ndrangheta. Ed è anche talvolta nascondiglio di latitanti».
Purtroppo, ancora adesso, in
Svizzera si tende talvolta a sottovalutare la presenza sul territorio delle
cosche mafiose, nonostante sia ormai acclarato che molti esponenti di Cosa
Nostra e molte famiglie di ’ndrangheta si siano insediate in vari cantoni.
Quanto può essere pericoloso questo atteggiamento?
«È molto pericoloso perché la
mafia è in grado di acquisire il controllo del territorio colonizzandolo,
trasferendo cioè in massa i componenti delle famiglie, conquistando spazi di
potere economico e quindi sociale e politico, avendo comunità su cui esercitare
la propria intimidazione o imprenditori da coinvolgere in affari illeciti o da
escludere da quelli leciti. Una sorta di “clonazione”, possibile grazie al
collegamento con una base di emigrazione che in maniera silente ma non meno
pericolosa si espande sempre di più. E questo avviene non soltanto in Svizzera
ma in molti altri Paesi, dall’Australia al Canada, agli Stati Uniti».
Com’è possibile che tutto questo
accada? Perché è così difficile capire che cosa succede?
«Le mafie ormai investono, fanno
impresa, evitano il frastuono degli spari. Il loro silenzio è funzionale agli
affari, a quella strategia di sommersione attuata da Bernardo Provenzano e poi
proseguita da Matteo Messina Denaro dopo la stagione delle stragi: rendersi
invisibili per fare meglio i propri interessi e nascondersi agli occhi dei
cittadini inconsapevoli, i quali non si rendono conto del problema perché non
c’è un vero allarme sociale».


Chi, e come dovrebbe reagire?
«Sicuramente gli imprenditori
locali, e le autorità di controllo. Le mafie eliminano la concorrenza perché
lavorano con capitali illeciti, che non costano. E si affidano spesso a
prestanome, anche insospettabili. Subappalti e forniture sono facili da infiltrare,
bisognerebbe monitorare costantemente ogni attività a rischio».
Può fare qualche esempio?
«Anche in Svizzera si possono
fare moltissime indagini attraverso l’accertamento dei cosiddetti reati-spia o
di violazioni amministrative nei contesti cantonali, per poi riferirli alle
autorità inquirenti federali. Per scovare le operazioni sospette esistono gli
indici di rischio, i quali possono essere approfonditi con la collaborazione
dei magistrati italiani che operano nei territori di origine delle
organizzazioni criminali. In questo senso, è fondamentale incrociare le banche
dati, i certificati penali dei singoli, gli elenchi delle imprese virtuose e
delle interdittive antimafia. Noi abbiamo sviluppato una serie di attività
preventive e amministrative che potrebbero essere utilizzate anche nella
Confederazione, un Paese in cui si cerca di portare i soldi dopo averli
riciclati. C’è anche il tema della finanziarizzazione dell’economia: capitali
accumulati con i trust e i fondi d’investimento, scatole cinesi che nascondono
l’origine del denaro e lo fanno fruttare a vantaggio personale. Una cosa
dev’essere chiara a tutti: l’economia criminale non crea sviluppo, il mafioso è
un predatore che non crea innovazione, vuole fare soldi per sé e il più in
fretta possibile».
Presidente Grasso, crede che la
lotta alla mafia si sia in qualche modo attenuta? Se ne parla sempre meno,
forse anche perché, come diceva lei prima, le cosche hanno scelto una strategia
della sommersione.
«È proprio così, purtroppo.
Quando il fenomeno criminoso non crea emozioni o paura, è più difficile fare
indagini su qualcosa che non si vede, che è silente. In Lombardia, sino al
2010, dicevano che la mafia non esistesse. Poi furono arrestate centinaia di
persone. Lo stesso è accaduto in Piemonte e in Emilia, territori nei quali si
pensava che ci fossero gli anticorpi alla criminalità organizzata».
I tanti arresti dei boss di Cosa
Nostra, ultimo quello di Matteo Messina Denaro, hanno disarticolato
l’organizzazione o l’hanno più semplicemente costretta a trovare nuovi assetti?
«Matteo Messina Denaro non era
il capo di Cosa Nostra, come Riina, governava il mandamento di Trapani. È
fatale, dopo il suo arresto, continuare a indagare per vedere chi lo ha
sostituito. Non sarà facile. Le indagini sono come gli esami, non finiscono mai.
Dopo aver partecipato alla stagione delle stragi, Messina Denaro aveva preso
altre strade e messo in atto un inserimento nell’economia con i villaggi
turistici, l’eolico, i supermercati: in un territorio di sottosviluppo dava
lavoro: ecco perché la sua latitanza è stata così protetta».
Giovedì scorso lei ha incontra i
liceali a Mendrisio, che cosa ha detto ai ragazzi?
«Ho parlato loro della metafora
della mafia, riportandola all’attualità. Ho tentato di spiegare che queste
organizzazioni limitano i diritti, la democrazia perché condizionano la vita il
più delle volte in maniera invisibile. Ho parlato anche di Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino, simboli del dovere e uomini con un profondissimo senso dello
Stato, che hanno difeso sino al sacrificio. E poi ho rivolto uno sguardo al
futuro, in cui anche le mafie si muovono in modo spregiudicato, avvalendosi di
hacker per fare estorsioni alle aziende bloccando i loro sistemi informatici,
muovendosi sul dark Web, puntando sulle criptovalute».
Presidente Grasso, in ultima
analisi, quali sono, oggi, i mezzi necessari per combattere la criminalità
organizzata? In parole semplici, che cosa bisogna fare per contrastare le
mafie?
«Servono soprattutto nuovi
strumenti legislativi e amministrativi per inseguire e sequestrare il denaro delle
mafie. L’obiettivo fondamentale è la ricchezza, è indispensabile quindi fare
indagini e controlli per portare alla luce l’economia illegale e quella
legale».