L'intervista

Pietro Grasso: «In un bidone a Scairolo vecchio trovammo due milioni di dollari»

Già presidente del Senato italiano e procuratore nazionale antimafia, è uno dei magistrati che più in profondità conosce la storia di Cosa Nostra
© EPA/ANGELO CARCONI
Dario Campione
08.03.2024 18:15

Pietro Grasso, già presidente del Senato italiano e procuratore nazionale antimafia, è uno dei magistrati che più in profondità conosce la storia di Cosa Nostra e, più in generale, della criminalità organizzata della Penisola. Negli ultimi due giorni, Grasso è stato in Ticino dove ha incontrato prima gli studenti liceali di Mendrisio e poi la commissione Giustizia e Diritti del Gran Consiglio. Il Corriere del Ticino lo ha intervistato in una pausa di questo viaggio nella Confederazione.

Presidente Grasso, qual è stato il suo rapporto con la Svizzera e con il Ticino negli anni dell’attività di magistrato? Ricorda qualche episodio curioso o qualcosa che la colpì in particolare?
«Il mio rapporto con la Svizzera comincia con l’indagine “Pizza Connection” del pool antimafia di Palermo e con il maxi-processo iniziato nel febbraio del 1986 nell’aula bunker dell’Ucciardone e nel quale ero giudice a latere. Una prima volta fui incaricato di venire a sentire per rogatoria Vito Roberto Palazzolo (considerato all’epoca il cassiere di Totò Riina e Bernardo Provenzano e oggi residente in Sudafrica, ndr) e il turco Paul Eduard Waridel, i quali erano implicati nel traffico di eroina dalla Sicilia verso gli Stati Uniti in quanto ne depositavano in finanziarie e banche luganesi i proventi; un secondo momento fu quando, durante la collaborazione del pentito Salvatore Cangemi, questi ci disse - per dare credibilità al suo racconto - che avrebbe potuto farci trovare molti soldi in Svizzera. Così arrivammo a Lugano, ma invece di andare in una banca Cangemi ci portò in collina, sopra Scairolo vecchio, e ci disse di scavare nei pressi di un cascinale dove effettivamente trovammo, in un bidone, due milioni di dollari USA. Ovviamente gli chiesi perché li avesse sotterrati proprio in Svizzera, e lui mi rispose che, secondo Riina, i soldi in Svizzera sarebbero stati al sicuro. In effetti, allora, la Confederazione era un rifugio ideale per il denaro sporco, il quadro normativo era carente e gli accertamenti impossibili. Poi, per fortuna, le cose sono cambiate».

Nel libro “Il mio amico Giovanni” lei racconta in un passaggio anche di essere stato a Lugano più volte per incontrare i magistrati ticinesi. Che rapporto aveva con loro?
«Direi ottimo. Quando ero procuratore nazionale antimafia gli scambi informativi erano costanti, soprattutto con la Procura federale e con il collega Pierluigi Pasi. Mandavamo numerose richieste di accertamenti e c’era un’ottima collaborazione giudiziaria. Sono venuto io a Lugano e sono venuti i magistrati svizzeri a trovarmi a Roma. Questo è un dato importantissimo: vedersi e parlare crea empatia, favorisce i risultati. Una telefonata dietro la quale c’è un solido rapporto personale supera le pastoie accelerando i risultati. Ce lo ha insegnato Giovanni Falcone, il quale iniziò così la collaborazione con i magistrati americani e con Carla Del Ponte».

Che cos’è stata e che cos’è oggi la Svizzera per le mafie?
«In passato, la Confederazione è stata sicuramente un polo attrattivo per le mafie, la cassaforte delle organizzazioni criminali. Qui i soldi erano al sicuro perché non c’era una legislazione che potesse permetterne il sequestro. Oggi è diverso, oltre a rimanere un rifugio per il denaro che arriva però già ripulito dai paradisi bancari, un luogo nel quale attivamente si opera in un continuo passaggio tra attività illegali e legali. I mafiosi, oltre a trafficare droga, trafficano anche armi che comprano in Svizzera per rifornire le cosche. Non solo: operano investimenti nell’economia legale, soprattutto in alcuni settori: l’alberghiero, la ristorazione, l’edilizia pubblica e privata, l’immobiliare. La Svizzera, per quello che posso sapere io, è anche una base operativa in collegamento con altri Paesi europei, come la Germania, ad esempio per i locali di ‘ndrangheta. Ed è anche talvolta nascondiglio di latitanti».

Purtroppo, ancora adesso, in Svizzera si tende talvolta a sottovalutare la presenza sul territorio delle cosche mafiose, nonostante sia ormai acclarato che molti esponenti di Cosa Nostra e molte famiglie di ’ndrangheta si siano insediate in vari cantoni. Quanto può essere pericoloso questo atteggiamento?
«È molto pericoloso perché la mafia è in grado di acquisire il controllo del territorio colonizzandolo, trasferendo cioè in massa i componenti delle famiglie, conquistando spazi di potere economico e quindi sociale e politico, avendo comunità su cui esercitare la propria intimidazione o imprenditori da coinvolgere in affari illeciti o da escludere da quelli leciti. Una sorta di “clonazione”, possibile grazie al collegamento con una base di emigrazione che in maniera silente ma non meno pericolosa si espande sempre di più. E questo avviene non soltanto in Svizzera ma in molti altri Paesi, dall’Australia al Canada, agli Stati Uniti».

Com’è possibile che tutto questo accada? Perché è così difficile capire che cosa succede?
«Le mafie ormai investono, fanno impresa, evitano il frastuono degli spari. Il loro silenzio è funzionale agli affari, a quella strategia di sommersione attuata da Bernardo Provenzano e poi proseguita da Matteo Messina Denaro dopo la stagione delle stragi: rendersi invisibili per fare meglio i propri interessi e nascondersi agli occhi dei cittadini inconsapevoli, i quali non si rendono conto del problema perché non c’è un vero allarme sociale».

Anche in Svizzera si possono fare moltissime indagini con l'accertamento dei reati-spia

Chi, e come dovrebbe reagire?
«Sicuramente gli imprenditori locali, e le autorità di controllo. Le mafie eliminano la concorrenza perché lavorano con capitali illeciti, che non costano. E si affidano spesso a prestanome, anche insospettabili. Subappalti e forniture sono facili da infiltrare, bisognerebbe monitorare costantemente ogni attività a rischio».

Può fare qualche esempio?
«Anche in Svizzera si possono fare moltissime indagini attraverso l’accertamento dei cosiddetti reati-spia o di violazioni amministrative nei contesti cantonali, per poi riferirli alle autorità inquirenti federali. Per scovare le operazioni sospette esistono gli indici di rischio, i quali possono essere approfonditi con la collaborazione dei magistrati italiani che operano nei territori di origine delle organizzazioni criminali. In questo senso, è fondamentale incrociare le banche dati, i certificati penali dei singoli, gli elenchi delle imprese virtuose e delle interdittive antimafia. Noi abbiamo sviluppato una serie di attività preventive e amministrative che potrebbero essere utilizzate anche nella Confederazione, un Paese in cui si cerca di portare i soldi dopo averli riciclati. C’è anche il tema della finanziarizzazione dell’economia: capitali accumulati con i trust e i fondi d’investimento, scatole cinesi che nascondono l’origine del denaro e lo fanno fruttare a vantaggio personale. Una cosa dev’essere chiara a tutti: l’economia criminale non crea sviluppo, il mafioso è un predatore che non crea innovazione, vuole fare soldi per sé e il più in fretta possibile».

Presidente Grasso, crede che la lotta alla mafia si sia in qualche modo attenuta? Se ne parla sempre meno, forse anche perché, come diceva lei prima, le cosche hanno scelto una strategia della sommersione.
«È proprio così, purtroppo. Quando il fenomeno criminoso non crea emozioni o paura, è più difficile fare indagini su qualcosa che non si vede, che è silente. In Lombardia, sino al 2010, dicevano che la mafia non esistesse. Poi furono arrestate centinaia di persone. Lo stesso è accaduto in Piemonte e in Emilia, territori nei quali si pensava che ci fossero gli anticorpi alla criminalità organizzata».

I tanti arresti dei boss di Cosa Nostra, ultimo quello di Matteo Messina Denaro, hanno disarticolato l’organizzazione o l’hanno più semplicemente costretta a trovare nuovi assetti?
«Matteo Messina Denaro non era il capo di Cosa Nostra, come Riina, governava il mandamento di Trapani. È fatale, dopo il suo arresto, continuare a indagare per vedere chi lo ha sostituito. Non sarà facile. Le indagini sono come gli esami, non finiscono mai. Dopo aver partecipato alla stagione delle stragi, Messina Denaro aveva preso altre strade e messo in atto un inserimento nell’economia con i villaggi turistici, l’eolico, i supermercati: in un territorio di sottosviluppo dava lavoro: ecco perché la sua latitanza è stata così protetta».

Giovedì scorso lei ha incontra i liceali a Mendrisio, che cosa ha detto ai ragazzi?
«Ho parlato loro della metafora della mafia, riportandola all’attualità. Ho tentato di spiegare che queste organizzazioni limitano i diritti, la democrazia perché condizionano la vita il più delle volte in maniera invisibile. Ho parlato anche di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, simboli del dovere e uomini con un profondissimo senso dello Stato, che hanno difeso sino al sacrificio. E poi ho rivolto uno sguardo al futuro, in cui anche le mafie si muovono in modo spregiudicato, avvalendosi di hacker per fare estorsioni alle aziende bloccando i loro sistemi informatici, muovendosi sul dark Web, puntando sulle criptovalute».

Presidente Grasso, in ultima analisi, quali sono, oggi, i mezzi necessari per combattere la criminalità organizzata? In parole semplici, che cosa bisogna fare per contrastare le mafie?
«Servono soprattutto nuovi strumenti legislativi e amministrativi per inseguire e sequestrare il denaro delle mafie. L’obiettivo fondamentale è la ricchezza, è indispensabile quindi fare indagini e controlli per portare alla luce l’economia illegale e quella legale».

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