«Quando papà mi diceva: abbassa la voce, ci ascoltano tutti»

La sera del 20 luglio 2000 in Italia, mentre si recava in vacanza a Chioggia con la sua famiglia, moriva alla soglia dei 62 anni il consigliere di Stato e presidente del Governo Giuseppe Buffi stroncato da un infarto che lo colse alla guida della sua auto. Abbiamo intervistato la figlia Nina Buffi.
Iniziamo con le presentazioni: chi è Nina Buffi?
«Sono un’imprenditrice con la passione per la scrittura, un’ingegnera e durante i fine settimana una tennista. Non ho mai saputo cosa fare da grande ma sono stata abbastanza saggia da seguire i verdetti del campo da tennis – persi 6-2 6-2 da una Stefanie Vögele tredicenne quando io di anni ne avevo diciotto – e i consigli di mia madre – “so di scrittori che hanno studiato ingegneria, il contrario mi pare più difficile”. Così ho studiato microtecnica, prima al Politecnico di Losanna e poi in Canada, a Vancouver. Finito il dottorato, un po’ per caso, un po’ per amore, sono partita per Berlino. Qui mi sono imbattuta in una persona e in un’idea eccezionali: ne è nata una ditta e un’amicizia per la vita».
A 20 anni dalla scomparsa di Giuseppe Buffi, suo padre, qual è il primo ricordo che le viene in mente?
«Un suo ritratto. A scuola ci era stato detto che per la Festa del papà avremmo dovuto disegnare un ritratto del nostro genitore e scriverci sotto una tra le frasi proposte, la quale, a dire delle maestre, gli avrebbe fatto piacere. Complice la mia scarsa inclinazione alle smancerie scartai il sempreverde “ti voglio bene papà” e il poco delicato (nei confronti delle mamme) “sei il migliore papà” e scelsi un “sei forte papà”. Le due insegnanti - di vecchio stampo - alludevano alla capacità del capofamiglia di aprire i vasetti di marmellata e accompagnarono questa possibilità con una posa in stile Braccio di ferro. Tuttavia, quando gli consegnai il mio regalo, mio papà pensò alludessi a un complimento più ampio - “forte” nel senso di “tipo sveglio, intelligente” - e fu piacevolmente sorpreso da una scelta stilistica non banale per una bambina di sette anni. Intuii che c’era stato un equivoco, però, per non gettare al vento l’ammirazione appena guadagnata, decisi di non chiedere spiegazioni. Ed ecco che quel disegno, due decenni dopo, c’è ancora».
I ticinesi hanno conosciuto il suo lato politico, la figlia cosa si sente di veicolare del vissuto quotidiano al fianco di un papà che ha perso la vita quando lei era solo una ragazza?
«Il quotidiano e la politica erano quasi sempre intrecciati, o meglio la politica s’imponeva spesso nel quotidiano, contendendomi – dal mio infantile punto di vista – le attenzioni di mio papà. Le vacanze erano interrotte dai fax, i pranzi al ristorante da chi gli voleva parlare, i pomeriggi domenicali da telefonate a cui, a dire il vero, talvolta, si rifiutava di rispondere, gesticolando in direzione di mamma un “non ci sono” che si traduceva con risposte poco credibili: “Mi dispiace, è appena uscito per una passeggiata”».
Ha un aneddoto particolare?
«Era una domenica d’estate. Avevamo deciso di andare a fare una gita in montagna. Quando arriviamo alla partenza del sentiero ci troviamo di fronte a un capannone in festa e un assembramento di persone – immagino si trattasse di una festa campestre. Mio papà viene evidentemente riconosciuto ed invitato ad un pranzo a base di polenta e luganighetta. “A dire il vero avevamo in programma una passeggiata” risponde, guardando me e mia mamma con aria quasi imbarazzata. “Ma stia qui, guardi che bello, più tardi ci sarà pure un concerto di corni delle Alpi” – forse non erano corni ma fisarmoniche. Come avrebbe potuto dire di no? Come avrei potuto io, allora solo bambina, capire perché dovevo rinunciare alla mia passeggiata? Come avrebbe potuto lui spiegarmelo?».
Com’era la sua vita da bambina e ragazzina, figlia di un padre importante del quale tutti (o quasi) ne parlavano bene?
«“Abbassa la voce, ci stanno guardando tutti” mi dissero più volte i miei genitori di fronte ai miei capricci infantili, facendomi infuriare ancor di più. Da bambina gli occhi degli altri, che per riflesso percepivo puntati anche su di me, mi infastidivano, perché credevo che ogni mia eventuale trasgressione mi sarebbe costata ben più di una ramanzina. Dei suoi traguardi ero invece orgogliosa e allo stesso tempo invidiosa: più di una volta gli dissi che da grande avrei fatto meglio di lui, convinta che questo obiettivo indefinito lo avrei potuto raggiungere soltanto fuori dal Ticino, dove a contare sarebbe stato unicamente il mio valore. Adesso mi piacerebbe cingere le spalle a quella bambina e dirle che non è quanto raggiungiamo a definire la persona che siamo e che è possibile accettare il ruolo ingombrante di un genitore senza per questo dover rinunciare alla propria identità».
Cosa ricorda di quel drammatico 20 luglio del 2000 e delle ore precedenti alla tragica scomparsa di suo padre alla soglia dei 62 anni?
«Gli eventi drammatici, privati e collettivi, hanno la capacità di trasformare ogni dettaglio che li circonda in ricordo indelebile. Così ricordo ancora adesso della partita a tennis che giocai quella mattina e del bagno in mare nel pomeriggio. Dopo rivedo mia madre, appoggiata a una delle sedie rosse di cucina, sollevare la cornetta e iniziare le telefonate per avvertire i parenti e gli amici che ancora non sapevano dell’accaduto con un “siediti”. Siediti. È curioso come a volte associamo a delle frasi, magari anche innocue, ciò che ci è successo. Quest’esortazione, per me, avrà sempre un sottinteso di “le tue gambe non reggerebbero la notizia” e non potrà mai essere altro che il preambolo di una tragica notizia. Chissà, magari a qualcuno ricorda invece l’esasperazione della maestra, quando da bambino non ne voleva sapere di stare seduto al suo posto».
Cambiamo argomento. A casa sua, come si dice in gergo, si mangiava pane e politica?
«Non direi, se per “politica” intende questioni di partito o strategie elettorali. Però in cucina avevamo un lungo tavolo in legno teatro di discussioni con amici e conoscenti che iniziavano con mio papà che offriva agli ospiti un grappino - senza alzarsi dalla sedia, si voltava dietro di sé, la inclinava pericolosamente all’indietro, allungava il braccio, apriva l’anta sinistra della credenza e finalmente, dallo scaffale più basso, afferrava la bottiglia di grappa - e che spesso si protraevano fino a notte fonda, quando tutti avevano ormai esaurito ogni argomento e l’unico rumore era il ticchettio del pendolo appeso alla parete. Da quel tavolo sono passati sogni, frustrazioni, paure e speranze di una generazione che voleva cambiare il triangolo di terra in cui viveva e che amava. Io me ne stavo lì ad ascoltare discorsi che spesso non capivo, sperando che si dimenticassero di me e di mandarmi a letto».
Non ha mai pensato di seguire le orme di suo padre e buttarsi in politica?
«No, oltre a non avere una predisposizione per la politica, ho sempre avuto timore di essere vista unicamente come la “figlia di” e del fastidioso vantaggio che il mio cognome rappresenterebbe nel mondo ticinese».
Gli ha mai chiesto «perché hai scelto la politica»?
No, forse perché mi è sempre parsa più una vocazione che una scelta. O forse un modo per affrancarsi dai modelli del suo tempo. Secondo i canoni di allora avrebbe dovuto fare il maestro per tutta la vita, il mestiere che aveva imparato e in cui però non vedeva un futuro. Riuscì pochi anni dopo a trasformare uno stage in un giornale in un cambio di rotta professionale - una scelta considerata precaria da molti tra amici e parenti – e in seguito ad entrare in politica, staccandosi dal ruolo che la società, viste le sue umili origini, aveva previsto per lui».
«Il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alla prossime generazioni». Forse questa è una delle più famose e mai banali dichiarazioni di Giuseppe Buffi. Sono frasi che usava solo da politico o che ha sentito in qualche modo anche a casa?
«Non ricordo frasi particolari, però penso che questa dichiarazione rifletta il suo modo di affrontare e di vivere la politica. Raramente in casa si parlava di elezioni, di chi avrebbe vinto o di cosa sarebbe successe se non fosse stato rieletto. Aveva una visione più ampia della politica e ne era appassionato, ambiva ad essere consigliere di Stato perché si trattava di una carica che gli permetteva di realizzate progetti a cui teneva, non per lo status che questo ruolo rappresentava - questo non significa che ogni tanto, guardandosi, allo specchio, non si aggiustasse un po’ compiaciuto la cravatta e non pensasse “ma guarda un po’ fin dove sono arrivato”».
Era un liberale radicale, ma soprattutto uno spirito libero, non per forza sempre ligio a tutto quanto diceva il PLR, al punto di trovarsi a correre per il Governo da consigliere di Stato in carica «con la bicicletta militare» (come dichiarò). Nell’era delle e-bike questa frase cosa le suggerisce?
«Gli strumenti a nostra disposizione sono sempre più numerosi e performanti, tuttavia anche le tecnologie più all’avanguardia si rivelano inutili in mancanza di contenuti: anche con l’e-bike bisogna saper pedalare. Viceversa, mio papà ha dimostrato che un ciclista caparbio e di talento sa vincere anche con una bicicletta militare, suscitando per di più lungo il percorso l’entusiasmo e il rispetto della folla».
Ogni settimana, dal 1992 alla sua scomparsa, trovava il tempo di dedicarsi alla sua passione, la scrittura, inviando al Corriere del Ticino la sua rubrica «Appunti» (la Edizioni San Giorgio ha appena stampato una seconda edizione del volume con le sue raccolte). Scritti che, incredibilmente, sembrano ancora attuali. È stupita oppure no?
«Solo in parte. Fatte le debite proporzioni, siamo di fronte allo stesso fenomeno che avviene con i classici: le vicende narrate in Anna Karenina, Madame Bovary, o in Delitto e Castigo potrebbero essere opera di uno scrittore contemporaneo. Nel corso degli anni la scienza e la tecnologia hanno fatto passi da gigante, ma noi siamo rimasti gli stessi, con le stesse paure, le stesse ambizioni e gli stessi pregiudizi di decenni fa. È quindi comprensibile che le analisi umane e sociali da parte di scrittori e giornalisti di talento siano ancora attuali».
La scrittura oggi è anche una sua passione. Si è decisa a rileggere tutti quelli di papà Giuseppe?
«In tempi diversi li ho letti tutti, sì. Alcuni mi hanno riportato a situazioni che avevo ormai dimenticato, come quella dell’affezionato lettore dei suoi articoli che mi chiese – avrò avuto nove o dieci anni – se la vecchia zia esistesse davvero. Siccome all’epoca di articoli non ne avevo letto neppure uno, rimasi lì a bocca aperta, senza capire a cosa di riferisse».
Consigliere di Stato e innovatore: tra le sue grandi realizzazioni non possiamo dimenticare l’Università della Svizzera italiana. Ha l’impressione che il Ticino e i ticinesi l’abbiano scordato?
«No, semmai sono spesso sorpresa da quanto il suo ricordo sia ancora impresso nella memoria dei ticinesi e questa intervista ne è la dimostrazione. La sua morte improvvisa in una sera d’estate che molti ricordano, la fine di un’epoca politica in cui i partiti classici erano ancora in grado di dare risposte, il suo carisma, le sue realizzazioni e i suoi articoli fuori dal tempo: tutti questi elementi hanno creato un personaggio quasi indelebile che a mio modo di vedere va oltre Giuseppe Buffi».