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Quel gioiellino in Valle Verzasca e il passato giovanile da Gianburrasca

Fabio Regazzi, consigliere nazionale per Il Centro dal 2011, oggi punta al Consiglio degli Stati – E non corre solo per gioco: «Sono una persona competitiva, detesto perdere» – La scelta di non sposarsi, la passione per la caccia e la successione dell'azienda di famiglia
© Ti-Press / Pablo Gianinazzi
Gianni Righinetti
15.09.2023 06:00

L’appuntamento con Fabio Regazzi è alle 7.30, un orario in realtà da dormiglioni per una persona abituata a partire per la caccia notte tempo. Regazzi morde il freno, neppure il tempo di arrivare nella sede del Gruppo Regazzi a Gordola e via in direzione Frasco. L’idea di condividere con altri quelle oasi di pace e ruralità che fanno parte della sua esistenza gli ha fatto salire l’adrenalina. «Beh, io sono fatto così, raramente sto con le mani in mano e detesto perdere tempo». Partiamo sul suo Land Rover Defender, l’auto da battaglia, fatta per i monti e la caccia e, mentre saliamo verso la Valle Verzasca, il politico a Berna presente in Consiglio nazionale dal 2011, attacca raccontando quello che è la sua azienda oggi: «Siamo alla terza generazione, oggi abbiamo 140 dipendenti e io praticamente ho preso il timone da mio padre Efrem Regazzi nel 2000. Ma tra la gestione di ieri e quella di oggi sono cambiate molte cose, e io guardo già al domani. È già venuto il momento di pensare alla successione aziendale». Prima di dedicarsi all’azienda di famiglia, Fabio Regazzi ha fatto l’avvocato e il notaio per una quindicina di anni. Ma all’azienda è sempre stato vicino e pure attivo: «Certo, mio padre Efrem non ha mai fatto sconti e non ci ha tenuti nella bambagia. La mia famiglia era benestante, ma non abbiamo mai vissuto nel lusso: siamo cresciuti con la cultura del lavoro. Quando ero un ragazzo le estati le trascorrevo a lavorare in ditta, ma non in ufficio: sui cantieri. Oltre a guadagnare qualche franchetto, ho fatto una bella esperienza e ho conquistato la credibilità e penso anche la stima dei collaboratori che vedevano il figlio del capo rimboccarsi le maniche come facevano loro».

Quel viaggio verso Zurigo

E veniamo alla sua infanzia: «La definirei felice, spensierata e un po’ da Gianburrasca. Non ero propriamente tranquillo. Diciamo che ad essere più comprensiva era mamma Elena, mentre il papà era meno incline a perdonare facilmente». I Regazzi sono una famiglia numerosa, con Fabio come maggiore di quattro fratelli, a seguire le due sorelle Katia e Justa e il fratello Marzio. Tutti sono implicati nell’azienda di famiglia in ruoli diversi. «Le estati le trascorrevamo a Sonogno, che porto sempre nel cuore. Ricordo poi gli studi al collegio Papio con don Mino che non me ne perdonava mezza, ma lo scontro al calor bianco con papà c’è stato alla fine del liceo. Lui voleva fortemente studiassi ingegneria, ma di matematica e fisica io non ne volevo sentire parlare. Abbiamo due caratteri forti, ma alla fine ha prevalso la mia volontà di studiare diritto a Zurigo. Ricordo la partenza per il primo semestre, in viaggio con la mia Opel Kadett, pieno di grandi speranze. Ma giunto alla Birreria di Bellinzona sono finito contro un muro. Papà mi avrebbe fulminato, così in prima battuta ho giocato la carta della mamma e me la sono più o meno cavata».

Il caffè corretto prima della salita

Possiamo dire che lei è un po’ una sorta di scapolo d’oro sulla piazza ticinese? «E perché mai? È vero, non mi sono mai sposato, ma non esageriamo». Lo osservo non osando chiedere perché non si sia mai sposato e a svelarlo è lui spontaneamente: «Mia madre, prematuramente scomparsa nel 2001, me lo diceva sempre. “Tu non sei fatto per il matrimonio”. Lo sappiamo, ciò che dice una mamma è come legge. Probabilmente aveva ragione». Ed eccoci alla sbarra lungo la strada patriziale per raggiungere il Monte Valdo sopra Frasco, la nostra prima tappa. Il cielo è perfettamente azzurro e le cime delle montagne sembrano disegnate. Raggiungiamo quota 1.300 metri, in lontananza si sentono i campanacci delle mucche, siamo ormai immersi nel profondo Ticino rurale. «Questo è il mio orgoglio – ci dice mostrando il rustico riattato seguendo le regole molto severe che disciplinano gli edifici tradizionali – è stata un’impresa, ma alla fine sono molto soddisfatto». Sulla parete, rampicante, c’è una stupenda rosa rossa, sana come poche e rigogliosa. «Mi piace osservarla: per me è fonte di ispirazione». È tempo per un caffè, corretto con un goccio di grappa nostrana: «Non è la regola di tutti i giorni, ma in montagna è diverso. Poi ci attende la salita verso l’altro mio monte, in località Cazzai, 400 metri di dislivello, tempo stimato 50 minuti».

Sventola la bandiera svizzera

Lasciamo il primo rustico con la bandiera svizzera che sventola: «Quella non manca mai, la nostra Patria e le nostre radici non sono esclusiva dell’UDC come vogliono lasciare intendere alcuni». Il pensiero probabilmente va a Marco Chiesa, consigliere agli Stati uscente: «Con Marco ho un ottimo rapporto ma fra di noi ci sono comunque differenze: io sono più moderato – mi definisco di centrodestra - e inoltre sono imprenditore e presidente dell’USAM. Ma in politica, quando arrivano le elezioni, non si gioca». La scarpinata è iniziata, il fiato si fa viepiù pesante, il battito cardiaco sale, ma si continua a parlare in libertà: «Chi mi conosce lo sa bene, sono una persona competitiva, che detesta perdere. Ecco, io corro per vincere». Il riferimento è appunto al Consiglio degli Stati. «Ma al contempo – prosegue – resto sereno e leale con tutti e mi attendo una campagna interessante. A proposito degli Stati, come avevo previsto nel 2019, negli ultimi quattro anni con un esponente PS e uno UDC il voto del Ticino, nel 58% dei casi, è stato nullo». E con gli altri come sono i rapporti? «Buoni, in particolare con Rocco Cattaneo, forse per il fatto di essere entrambi imprenditori, e anche con Piero Marchesi. Ma l’amicizia travalica il partito e ad esempio con Greta Gysin c’è stima e simpatia. Mi permetto anche una chicca, certo che non si offenderà: un giorno sulle scale di Palazzo federale mi ha detto di volere venire a caccia con me almeno una volta. Per ora non è accaduto ma in futuro chissà?».

Hockey, calcio e basket

Man mano ci lasciamo alle spalle il bosco, la brezza è piacevole, ma il sole picchia forte: si suda e, come dice Regazzi «è tutta salute». Una domanda spontanea: ma Regazzi come fa a fare tutto (azienda, politica, USAM, caccia, basket e hockey)? «Beh, tanti impegni, ci vuole grande organizzazione, buoni collaboratori e soprattutto voglia di fare». Ma qual è la passione più forte? «Senza alcun dubbio, la caccia. L’ho nel sangue, mi dà una grande energia, mi regala emozioni in mezzo alla natura e non è solo (come certi ambienti intrisi di ideologia credono) il momento dello sparo al selvatico. Ma so bene che questo messaggio fatica a passare. Io però non mi stancherò mai. La caccia è qualcosa di stupendo, tramandata in famiglia. Ricordo con emozione il primo fucile che mi ha regalato mio zio Giorgio. Sono momenti che ti restano impressi. Io la caccia l’ho iniziata a 22 anni. Ricordo un camoscio abbattuto da mio padre (era il 1983) e io che l’ho riportato a valle da una zona impervia. Da lì è scoccata la scintilla e l’anno prossimo saranno 40 anni di patenti senza mai uno stop». L’USAM è una carica impegnativa «ma che svolgo con passione, e alla fine è anche gratificante». E lo sport? «A calcio ho giocato fino in terza divisione, non ero molto dotato, ma mi piaceva. Però avevo una caratteristica: vedevo la porta». E siamo all’hockey: «Da sempre bianconero, anche quando esserlo nel locarnese era dura, eravamo in pochi. Forse questo era già il mio spirito da bastian contrario. Oggi sono nel CdA dell’HC Lugano, primo sopracenerino a far parte di questo gremio, ma ho ammirazione nei confronti della storia dell’Ambrì: una sana rivalità tra le due realtà è un patrimonio sportivo del nostro cantone». E il basket? «Beh, l’amico Giovanni Bruschetti mi ha convinto a prendere in mano la società e l’anno scorso abbiamo conquistato la Coppa della Lega, il primo trofeo del club: una grande soddisfazione». Si ferma e punta lo sguardo verso l’alto. Sopra di noi una grande roccia a forma di volta, con i massi che paiono pronti a precipitare da un momento all’altro: «Sono lì da millenni, ma prima o poi cadranno. Con mio padre c’era l’idea di mettere una madonna all’interno perché si presta molto».

Il Wimbledon delle bocce

Ed eccoci a Cazzai, un nucleo di rustici tipici della Verzasca, molto ben tenuti, una chicca a 1.700 metri. Il tono di Regazzi si fa euforico mostrando il suo gioiellino: «Adoro venire qui, anche solo per una toccata e fuga, ma anche parte delle mie vacanze estive le trascorro in questo luogo, oltre naturalmente alla caccia. Ci tengo a tenerlo in ordine e qui c’è magari poco, ma al contempo non manca nulla». L’acqua è freschissima, ma la voglia di una birra ha il sopravvento. Tempo di riprendere fiato e Regazzi lancia la sfida: «Ecco, questo è il Wimbledon delle bocce». Si tratta di una distesa di erbetta curata e verde, un campo dove si sono tenute «partite epiche, anche con personaggi illustri. Dai Gianni, ti sfido». Sono perplesso visto che Regazzi vuole vincere sempre. Vabbè, non posso dire di no. A sorpresa vinco la sfida, Regazzi fa buon viso a cattiva sorte: «Pazienza, diremo che ti ho fatto vincere per cortesia dato che sei ospite».

Sono uno strenuo difensore della politica di milizia, è per un me un caposaldo irrinunciabile. Io non mi riterrò mai un politico di professione

Carne e pesce alla griglia

È mezzogiorno e la fame si fa sentire. Ma che genere di cuoco è Regazzi? «Non provetto, non sono tra quei politici ticinesi che “il mio risotto è il più buono del mondo”. Me la cavo a fare un po’ di tutto ma sono piuttosto bravo con la griglia di carne e pesce. Oggi mangiamo un piatto di pasta con ragù di camoscio cacciato da me. Il tutto bagnato con una buona bottiglia di merlot”. Siamo al tavolo di sasso, ma qui «non si fanno grandi strategie politiche, è un luogo d’amicizia e convivialità, dove condividere buon cibo».

A Berna, diversi ma uguali

La politica è luogo di contatti e contrasti, ma a Berna la si vive in una dimensione molto particolare. E la figura che cita, spontaneamente, è quella di Pierre-Yves Maillard membro del PS e presidente dell’Unione sindacale svizzera: «Siamo ovviamente agli antipodi in politica, ma abbiamo contatti regolari, è una persona intelligente, direi un abile volpone. Fa parte della vecchia guardia, politici che man mano vanno sparendo». In sostanza il pensiero va alle nuove generazioni «giovani che arrivano presto e che sono spesso prodotti delle segreterie dei partiti, sicuramente preparati ma anche ideologizzati, non spiriti liberi di ragionare sempre con la propria testa». Però la milizia dovrebbe essere garanzia di elveticità, o no? «Sono uno strenuo difensore della politica di milizia, è per un me un caposaldo irrinunciabile. Io non mi riterrò mai un politico di professione».

È tempo di tornare al piano e tutto è più facile: «Ma la campagna per le elezioni federali sarà come la salita. Non la temo (sono allenato) ma la rispetto. È un po’ la mia scuola di vita».

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