Mendrisiotto

Rissa alla clinica psichiatrica: pena sospesa a favore di una terapia

Misura stazionaria in una struttura aperta per un trentunenne autore anche di ripetute minacce al personale infermieristico
©CdT/Chiara Zocchetti
Federico Storni
20.03.2024 18:09

Sessanta. Sessantatre. Cinquantanove due e cinquantanove tre. È con questi termini che i carcerati a Lugano si riferiscono alle possibili misure terapeutiche che potrebbero essere comminate loro dalle Corti penali. I numeri fanno riferimento ai rispettivi articoli del codice. Lo scambio di vedute fra chi si trova in cella non si ferma peraltro a un livello superficiale, tant’è che l’imputato comparso oggi di fronte alle Assise criminali presiedute dal giudice Mauro Ermani non avrebbe sfigurato a un ipotetico esame di diritto penale, malgrado abbia unicamente la licenza media. Solo, non ha saputo spiegare la differenza fra l’articolo 59 capoverso 2 e 39 capoverso tre: trattamento stazionario in struttura aperta o, rispettivamente, chiusa. Poco importa, perché lo ha reso edotto Ermani: la struttura chiusa è riservata ai soggetti socialmente pericolosi. Non è però il suo caso ed è quindi stato destinato a una struttura aperta. Per curare la sua schizofrenia e le sue dipendenze, ha deciso la Corte, «una terapia ambulatoriale (il 63, ndr.) non basta».

Un vissuto difficile

Ma andiamo con ordine. Il processo tenutosi quest'oggi non era tanto teso a determinare la colpevolezza dell’imputato - un trentunenne svizzero - quanto a identificare il percorso di cura migliore per l’uomo, che come detto soffre di schizofrenia e quando consuma droga e alcolici diventa molto aggressivo. Talmente tanto che a denunciarlo alla Magistratura è stata la Clinica psichiatrica cantonale (CPC), presso la quale era ricoverato al momento dei fatti nell’estate del 2023, per la sedicesima volta negli ultimi dieci anni. Al beneficio dell’assistenza e sotto curatela, l’uomo ha avuto una vita difficile, venendo tra l’altro abbandonato dalla madre, all’epoca tossicodipendente, quando aveva sette anni. I principali reati che gli imputava la procuratrice pubblica Chiara Buzzi erano quelli di aggressione e di ripetuta violenza o minaccia contro le autorità e i funzionari. Il primo, poi derubricato in rissa dalla Corte, riguardava un diverbio all’interno della CPC che aveva coinvolto quattro persone e dove erano volati dei colpi. Il secondo, confermato, faceva invece riferimento a una dozzina di minacce di morte e violenza da lui pronunciate nei confronti del personale della CPC. Per tutto ciò è stato condannato a nove mesi, sospesi a favore del già citato trattamento stazionario in struttura aperta (in Ticino ve ne sono due idonee, ma decidere la destinazione sarà compito del Giudice dei provvedimenti coercitivi).

«So di aver sbagliato»

Una perizia psichiatrica parlava di un alto rischio di recidiva, di una scemata imputabilità, e della necessità di una presa a carico stazionaria. «Non volevo fare del male a nessuno - ha detto in aula il 31.enne: - sono una persona buona. So di aver sbagliato, ma spero in una nuova possibilità per ricominciare la mia vita». Buzzi da parte sua, rimarcando che egli ha «creato un clima di terrore in tutta la CPC», ha sottolineato come «oggi si tratta innanzitutto di trovare un luogo adatto per fargli continuare il suo percorso». La procuratrice avrebbe preferito che ciò avvenisse in una struttura chiusa, ma non si è opposta a quella aperta. L’avvocato Walter Zandrini, difensore dell’imputato, aveva per contro chiesto il proscioglimento dall’accusa di minacce: «Gli infermieri specializzati in psichiatria devono saper gestire le presunte minacce e queste crisi, altrimenti avremmo centinaia e migliaia di questi processi». «Ma l’imputato è andato ben al di là» di quanto succede in questi casi, ha sentenziato la Corte. Federico Storni