Se la criminalità organizzata cresce grazie ai propri mafia-influencer

Post-mafia. La mafia che si trasforma, che prende il posto di quella tradizionale. Ma anche la mafia dei post. La mafia digitale. La mafia che vive, cresce e prospera sui social media. Non una mafia virtuale, attenzione. Tutt’altro. Una mafia reale, pericolosa tanto quanto la sua sorella “analogica”. E, forse, ancora di più. Di post-mafia si è parlato questo pomeriggio a Lugano in un seminario scientifico organizzato dall’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata (O-TiCO) associato all’Istituto di Diritto dell’Università della Svizzera Italiana (USI). Un focus, ha detto in una breve introduzione Annamaria Astrologo, responsabile scientifica dell’O-TiCO, voluto per comprendere «le forme di adattamento» delle criminalità organizzate ai cambiamenti sociali. E nulla, probabilmente, più dei social media, che «occupano spazio centrale in quanto incidono sulla costruzione dell’identità» dei singoli, è in grado di far capire questo adattamento. Le sue finalità e i suoi effetti.
La parte più interessante del seminario è stata certamente la lunga relazione di Marcello Ravveduto, associato di Storia contemporanea all’Università di Salerno e curatore dei due rapporti Le mafie nell’era digitale pubblicati da Franco Angeli nel 2023 e nel 2025. Una relazione che ha unito uno sguardo d’insieme sulla presenza dei mafiosi nelle piattaforme social a una nuova semantica: quella, appunto, costruita attorno a un mondo troppo spesso considerato trash, volgare, grottesco, e invece pienamente inserito nei flussi della comunicazione contemporanea. «Le mafie si adattano a ogni contesto storico - ha esordito Marcello Ravveduto - quindi, anche al contesto digitale: quello conosciuto», le terre emerse del Web su cui tutti si muovono; e quello «degli abissi, il Dark Web», nel quale si commettono reati di ogni genere. Stare sui social, per i criminali, significa scegliere una sorta di «continuità storica delle mafie». Sbaglia chi associa il boss con l’uomo invisibile: «sul territorio, il potere criminale si è sempre fatto vedere, anche in funzione del proprio processo di legittimazione sociale». E i social media sono la forma nuova di questa legittimazione.
L’auto-rappresentazione
Nei social media, ha spiegato ancora Ravveduto, «noi conosciamo le mafie per rappresentazione e auto-rappresentazione. La fotocamera retroversa inquadra i mafiosi nel loro ambiente. La selfizzazione della società non risparmia nemmeno le organizzazioni criminali. Che adattano la propria narrazione a un’ideologia di post-verità: rovesciano il modello di vita», esaltando il proprio. Si entra, così, in una vera e propria «mafiosfera, la copia negativa dell’infosfera» di cui ha tanto parlato Luciano Floridi nei suoi studi. La mafiosfera, dice Ravveduto, «è l’ambiente digitale nel quale si costruisce il mondo comunicazionale della mafia», ed è caratterizzato da tre elementi: uno endogeno - i mafiosi che comunicano i propri valori che per noi sono, ovviamente, disvalori; uno esogeno - i mafiosi che entrano in contatto con il mondo esterno; e uno interstiziale - la contaminazione tra narrazioni tradizionali e narrazioni criminali».
È chiaro che fare teoria comunicativa su argomenti molto concreti quali possono essere, ad esempio, i comportamenti delle cosche o dei singoli associati, può talvolta sembrare un esercizio accademico. Ma, in realtà, ciò è vero soltanto in parte. Distinguere, ad esempio, come ha fatto Marcello Ravveduto, sui contenuti e sulle forme espressive degli “influencer” mafiosi fa capire come la criminalità organizzata abbia preso molto sul serio la propria presenza online e come abbia compreso peraltro benissimo i meccanismi che facilitano la costruzione del consenso. Così si spiega il passaggio dalla «Gang-influencing» - la costruzione di contenuti di ostentazione delle gang - alla «Mob-influencing» - la strategia consapevole di promozione del proprio modello di vita, un modello fondato sul successo economico (anche se derivante da pratiche illegali. «I mafiosi si comportano sui social come se fossero nel quartiere di riferimento - ha spiegato ancora Ravveduto - la mafia diventa spettacolo permanente sui social, e i mafiosi si sono “vetrinizzati” (espressione coniata da Vanni Codeluppi, ndr), mettendo in mostra il lusso, la ricchezza. Un mondo reale a imitazione dell’immaginario».
Dalla mafia-potere si è passati, in questo modo, alla «mafia-marca, al brand mafia. La criminalità social presenta sé stessa come sistema mitopoietico, alimenta cioè il proprio mito autoglorificandosi». Un processo, e questo è davvero paradossale, che meravigliosamente «si adatta alle regole della piattaforma». Gli algoritmi fanno crescere in modo esponenziale questa narrazione e sul Web prende forma il «Mafiorama, il panorama mediale che trasforma la mafia in brand globale grazie a elementi come il glamour, il lusso, l’estetica del potere fortemente visibile e riconoscibile, la generosità verso i subalterni, l’idea di una giustizia rapida e sommaria. In poche parole, la costruzione di una vera e propria post-verità».
