Si torna alle urne sul dumping

Sono servite quattro ore di dibattito per bocciare l’iniziativa popolare dell’MpS che si prefigge di combattere il dumping salariale. E così facendo, dunque, portarla alle urne. Il Gran Consiglio, dopo un fiume di parole, ha infatti scelto di accogliere (con 53 voti favorevoli, 20 contrari e tre astenuti) il rapporto di maggioranza uscito dalla Commissione economia e lavoro, che respingeva il testo. Verosimilmente, sull’oggetto proposto dal movimento – datato 2019 – saremo chiamati a esprimerci il prossimo marzo. Già. Ma che cosa chiede, esattamente, l’iniziativa? In estrema sintesi, poggia su quattro pilastri: l’obbligo di notifica per ogni contratto (nuovo o concluso) di lavoro; il potenziamento dell’ispettorato del lavoro(con un ispettore ogni 5 mila lavoratori); la creazione di una sezione dedicata alle discriminazioni di genere (con un ispettore ogni 2.500 lavoratrici); la pubblicazione di una statistica aggiornata dei salari e delle condizioni di lavoro.
Fuori controllo o no?
Oltre a una battaglia di cifre (vedi articolo sotto), in aula è andata in scena una battaglia di posizioni. Fra chi sostiene che il mercato del lavoro sia fuori controllo, e che dunque vada regolato meglio, e chi invece sostiene che le misure introdotte siano adeguate. E che, di conseguenza, imbastire ulteriori controlli sia fuori luogo. La lettura che ha fatto l’iniziativista Giuseppe Sergi del mercato del lavoro in Ticino è cruda. «Nel nostro cantone, il mondo del lavoro è diventato selvaggio, un far-west in cui vige la legge del più forte», ha attaccato. «Il dumping, oggi, si estende a tutti i settori. Nessuno è più al riparo». La questione salariale, per Sergi, è centrale in Ticino. E, dopo i premi di cassa malati, è uno dei temi che più preoccupano i cittadini. In vista della campagna di voto «ci si prepara già a dire che l’iniziativa è un mostro burocratico, che costa troppo», ha avvertito ancora il deputato. «Ma basta guardare a che cosa è successo con le due iniziative sui premi di cassa malati votate in settembre. Serve a poco agitare lo spauracchio delle finanze quando un tema preoccupa le persone». L’iniziativa, ha aggiunto, mira a costruire un sistema di controllo efficace del lavoro, «ed è un passo decisivo per contrastare il dumping salariale e sociale». Agli antipodi, invece, la lettura di Cristina Maderni, relatrice di maggioranza. Il modello oggi in vigore, fondato sul partenariato sociale, per la deputata liberale radicale «è virtuoso». Da un lato ottimizza le risorse, dall’altro evita il moltiplicarsi dei controlli. Inoltre, in base ai rendiconti dell’ispettorato del lavoro, la grande maggioranza delle aziende presente sul territorio «rispetta le regole». Solo una piccola parte incappa in infrazioni, e ciò è solitamente dovuto a errori interni o alla mancata conoscenza delle norme, ha sottolineato Maderni. Raide Bassi, l’altra relatrice del rapporto di maggioranza, ha invece puntato il dito sulla rigidità dell’iniziativa. «Siamo convinti», ha spiegato la democentrista, «che il testo finirà per complicare ciò che oggi funziona». Per Bassi, in gioco c’è anche la competitività economica: «Ogni ulteriore vincolo o personale aggiuntivo imposto impedisce alle aziende di essere competitive e di creare occupazione». Centralizzando i controlli come vuole l’iniziativa, ha chiosato, si creano complicazioni e inefficienza. «Bisogna smetterla con proposte costose per i conti pubblici, che peraltro non risolvono nulla».
Ticino più povero
Il dibattito si è quindi spostato sul relatore del rapporto di minoranza, Fabrizio Sirica. «In Ticino i salari reali diminuiscono da anni», ha attaccato il co-presidente socialista. «Significa che la popolazione si sta impoverendo. Ed è centrale riconoscerlo». Per Sirica, siamo di fronte a dumping sociale. «Nonostante la crescita dell’occupazione, sempre più persone faticano ad arrivare a fine mese». Un altro problema, secondo il socialista, è l’esplosione del lavoro interinale, così come le differenze salariali di genere. «L’iniziativa forse non risolverà tutto il problema, ma è parte della soluzione. Dobbiamo prenderci cura del lavoro». Secondo Giovanni Berardi (Centro), invece, l’iniziativa crea soltanto «eccessiva burocrazia e fa aumentare i costi, anche per le aziende». E il tutto si traduce in minore competitività. L’erosione del potere di acquisto del ceto medio, secondo il deputato, è possibile frenarla grazie al partenariato sociale, dunque con il dialogo fra tutti gli attori coinvolti.
Sostegno all’iniziativa è arrivato ancora dal fronte progressista, con Marco Noi (Verdi) a denunciare la strumentalizzazione politica di un tema preoccupante. Lapidaria Amalia Mirante (Avanti con T&L): «Oggi non si discute di come risolvere il dumping, ma di una proposta che manca il bersaglio e crea problemi al posto di risolverli. Il Ticino non ha problemi di controllo, ma di economia». Il dumping, ha spiegato, è dovuto anche ai tanti settori produttivi in Ticino «che creano poco valore aggiunto». Sostegno alla maggioranza è arrivato anche dai banchi di HelvEthica, contrari invece PC e Più donne.
«Senza vantaggi»
Prima del voto dell’aula, la parola è passata a Christian Vitta. Il direttore del DFE ha difeso a spada tratta le misure già introdotte per regolare il lavoro in Ticino, ricordando il buon funzionamento delle commissioni paritetiche e tripartite. Inoltre, per il consigliere di Stato i controlli sono efficaci e pochi gli abusi. «L’unico effetto dell’iniziativa è quello di indebolire il partenariato sociale senza presentare vantaggi», ha evidenziato. Il testo, secondo Vitta, «è ridondante, gli obiettivi sono già raggiunti o superati» ed è inefficiente perché a fronte di costi elevati non offre vantaggi tangibili. Tutti temi e posizioni, quelle emerse dal dibattito, che - c’è da scommetterci - ci accompagneranno anche durante la campagna di voto.
L’inghippo sui numeri e l’interpretazione che divide
La discussione sull’iniziativa «anti-dumping» dell’MpS è stata anche (se non soprattutto) una «battaglia» sulle cifre e sull’interpretazione di come andrà implementata, nella pratica, la proposta. Una battaglia che, inevitabilmente, proseguirà anche nella campagna che porterà alla votazione popolare. E che, in sintesi, verte sulla reale portata dell’iniziativa. Secondo il Governo e la maggioranza applicarla costerà circa 18 milioni di franchi e comporterà l’assunzione (complessivamente) di oltre 160 funzionari. Secondo gli iniziativisti e la minoranza, invece, costerà circa 6 milioni e porterà all’assunzione di una cinquantina di funzionari. Ma come mai tutta questa differenza? Andiamo con ordine. L’iniziativa chiede che l’Ispettorato del lavoro sia dotato di un ispettore ogni 5 mila lavoratori e una ispettrice ogni 2.500 donne lavoratrici. E fin qui, tutto bene. Il calcolo degli ispettori necessari per fare ciò è abbastanza semplice e non è fonte di particolari diatribe. L’inghippo principale riguarda infatti un’altra richiesta dell’iniziativa: il fatto che i datori di lavoro saranno tenuti (se l’iniziativa popolare venisse approvata) a notificare al Cantone ogni contratto di lavoro nuovo o concluso. E soprattutto il fatto che l’iniziativa chiarisce anche, al punto 4, che «qualora, nell’ambito della raccolta dei dati fondamentali inerenti ad un contratto di lavoro, l’autorità riscontrasse infrazioni a leggi o contratti di lavoro, esse saranno segnalate agli organismi interessati alla loro applicazione». Ebbene, secondo l’interpretazione del Governo e della maggioranza ciò significa che ogni singolo contratto (nuovo o sciolto) andrebbe controllato (ed eventualmente pure verificato direttamente in azienda) dall’autorità cantonale. E solo per questo compito sarebbero necessari altri 126 ispettori (per un totale di oltre 160), con i relativi costi per il personale stimati in circa 18 milioni. Secondo l’interpretazione degli iniziativisti e della minoranza, invece, il punto 4 chiarisce solamente che i dati riguardanti i contratti vanno raccolti, e non controllati uno a uno. Basterebbe dunque la raccolta (e un eventuale controllo automatico e informatizzato) senza procedere all’assunzione di centinaia di funzionari per verificare tutti i contratti. A tal proposito, il deputato dell’MpS, Matteo Pronzini, che invano ha chiesto di rinviare il dossier in Commissione per chiarire la questione, ha parlato di «terrorismo finanziario» e di un «palese errore» nell’interpretazione della proposta, fatto nel tentativo di screditare l’iniziativa. «Ma queste cifre (ndr. gli oltre 160 ispettori necessari) non sono il frutto dell’improvvisazione, come qualcuno vuol far credere», ha risposto il consigliere di Stato Christian Vitta, aggiungendo che «la semplice raccolta dati» sarebbe superficiale e rappresenterebbe «un esercizio fine a sé stesso», poiché «non potrebbe analizzare le palesi infrazioni», come richiesto dall’iniziativa. D’altronde, ha chiosato Vitta, «lo scopo finale dell’iniziativa è fare i controlli». Durante il dibattito in aula (e quello avvenuto negli scorsi mesi in Commissione), la divergenza non è stata chiarita. È quindi probabile che la diatriba proseguirà (eventualmente anche per vie legali) quando si tratterà di interpretare l’iniziativa nell’opuscolo informativo che i cittadini riceveranno a casa. Una possibilità non esclusa pure da Pronzini: «Sappiamo come funzionano le cose e vediamo già la discussione sull’opuscolo in cui il Consiglio di Stato scriverà 18 milioni di costi e 166 funzionari. Evidentemente toccherà a noi poveri deputati fare ricorso».

