L'intervista

«Sono le imprese a volere i frontalieri, tra Ticino e Lombardia rapporto forte»

L'incontro con Gabriele Meucci, console generale, da un anno e mezzo alla guida della sede diplomatica italiana a Lugano
©Gabriele Putzu
Dario Campione
17.03.2023 06:00

Chi è e che cosa fa, in concreto, un console in Ticino? Gabriele Meucci guida da un anno e mezzo la sede diplomatica italiana a Lugano. Lo abbiamo incontrato e gli abbiamo chiesto di raccontare in modo semplice la vita e il lavoro quotidiano dentro lo storico palazzo di via Pelli.

Dottor Meucci, come descriverebbe in parole semplici il lavoro del consolato?
«Il consolato generale di Lugano esiste da moltissimi anni. Nella sua lunga storia, soltanto all’inizio ha gestito gli aspetti burocratici che gravavano su una comunità italiana di immigrati bisognosa di assistenza. Questi aspetti sono andati via via scemando, fino a scomparire; e in realtà, probabilmente, in Ticino non sono mai stati davvero prevalenti: l’emigrazione operaia si è infatti sempre diretta verso i cantoni di lingua tedesca o romanda, là dove erano insediati i grandi stabilimenti industriali. È chiaro che, nel tempo, la presenza italiana in Ticino è cambiata, ma un vero e proprio problema d’integrazione, io credo, non c’è mai stato. Parliamo la stessa lingua, la cultura del territorio è vicina a quella lombarda e del Nord Italia, professiamo un’unica religione. Per questo, il lavoro del consolato oggi è rivolto a favorire ulteriormente e a consolidare un rapporto già forte».

E il console, che cosa fa in concreto? Quali sono i suoi compiti?
«Le do una definizione molto personale, che non è presente nei manuali diplomatici o nelle circolari del ministero degli Esteri: oltre a essere ovviamente responsabile di ciò che accade nella sede consolare, il console è una specie di prete laico. È la persona che deve trasmettere una certa idea d’Italia, essere presente sul territorio, gestire dal punto di vista operativo una serie di rapporti. Un punto di riferimento della comunità italiana, chiamato a sviluppare rapporti complessi con il resto del territorio. Ogni settimana incontro almeno 5 o 6 persone nuove che occupano posizioni chiave nella società, nell’economia o nella politica ticinese. Le conversazioni che ne nascono non hanno un tema fisso, ma è proprio da questo approccio che nasce la ricchezza del nostro lavoro. La parte fondamentale è l’analisi: capire chi si ha di fronte, perché accadono le cose e intervenire, se necessario, per risolvere problemi o evitare complicazioni. Alla fine, quando serve, un console è chiamato a fare una sintesi quanto più logica, comprensibile e oggettiva di ciò che vede».

Tra i problemi burocratici c’è la questione passaporti, che di recente ha fatto di nuovo discutere per i tempi lunghi di rilascio.
«Mi lasci dire nuovamente che a Lugano non c’è alcuna situazione problematica, né tantomeno caos. Chi prenota oggi online un appuntamento per il rinnovo del passaporto ha tempi di attesa inferiori a quelli di un cittadino italiano che deve rivolgersi alla Questura della sua provincia, stiamo parlando di 40-50 giorni al massimo. Inoltre, in caso di certificata urgenza, siamo in grado di rilasciare il documento subito. Mi creda, in altri Paesi europei non accade».

Per un diplomatico italiano, probabilmente, Lugano è una sede molto particolare: terra straniera a pochi passi da casa. Separata da un confine che unisce, più che dividere.
«Vede, i confini, in realtà, sono sempre esistiti, ma hanno cominciato a essere un problema per gli esseri umani nel 1914. Prima di quella data non esistevano nemmeno i passaporti, che sono stati inventati proprio con la Prima Guerra mondiale. Nell’800 e fino alla Grande guerra, per le popolazioni che vivevano in queste aree il passaggio tra la Svizzera e il Lombardo-Veneto o il Regno d’Italia era indolore, faceva parte di una quotidianità del tutto normale. Oggi, paradossalmente, siamo tornati a tempi simili a quelli passati. Nel continente europeo sono state abbattute molte frontiere e anche la Svizzera, alla fine, con una serie di accordi, ha ottenuto gli stessi risultati. Le sue frontiere sono aperte».

Qualcuno dice fin troppo aperte, pensando magari al numero sempre crescente di frontalieri.
«Ma i frontalieri ci sono perché nel mercato del lavoro ticinese c’è una domanda in tal senso da parte degli imprenditori. Se così non fosse, la situazione sarebbe un’altra. D’altronde, non si può avere capacità industriale senza forza lavoro. L’una non c’è senza l’altra. Inoltre, non possiamo continuamente insistere sulla necessità di integrarci, di aprirci al mondo, di favorire la mobilità e poi, nel momento critico, quando tutto questo si avvera, giudicarlo problematico. La libertà di circolazione comprende anche il lavoro».

Come incide, sul suo lavoro, questa massiccia presenza quotidiana di lavoratori italiani in Ticino?
«Direi poco. Quando si raggiunge un tale numero di movimenti e di presenze, la conclusione ovvia è che tutto ciò va da solo, non ha bisogno di accompagnamento, né di assistenza. Da questo punto di vista, sono molto sereno: la comunità italiana è una realtà del tutto integrata in Ticino, si muove su solchi e lungo terreni arati da tempo. Mi viene sempre in mente quanto mi dicevano i colleghi francesi e tedeschi che incontravo durante un mio precedente incarico a Berlino: i rapporti tra Francia e Germania, spiegavano, sono talmente fitti e numerosi che gli stessi governi non sanno come contarli, non sanno farne un catalogo. Lo stesso accade qui. Ma in fondo, è il risultato che volevamo raggiungere e abbiamo raggiunto. Alcuni di questi rapporti cambieranno, ne nasceranno nuovi e altri scompariranno, ma noi non possiamo guidarli. Quando lasci libere le forze, poi, non le governi più».

Dopo un anno e mezzo, che idea si è fatto del Ticino?
«Del Ticino mi piace tutto. Io sono milanese, ho una mentalità lombarda, trovo ogni cosa molto familiare, a partire dal pragmatismo con cui si affronta la vita. Lo apprezzo molto. Ciò che mi ha sorpreso davvero del Ticino è stato l’aspetto religioso: ho sempre immaginato la Svizzera come uno Stato solidamente laico; ascoltare la messa alla radio pubblica mi ha impressionato. Trovo che sia un aspetto da esplorare. In un Paese così secolarizzato non mi aspettavo una visibilità delle istituzioni religiose tanto forte».

Una lunga carriera quasi tutta in Europa

Milanese, 60 anni, Gabriele Meucci è oggi ministro plenipotenziario. Dopo il primo incarico di console a Spalato, in Croazia (1995-1999), è stato primo segretario commerciale a Ottawa, in Canada (1999-2001), quindi consigliere commerciale all’Ambasciata d’Italia in Albania(2001-2003). Dal 2006 al 2009 è stato in Montenegro, prima come console e poi come ambasciatore. Dal 2009 al 2013 è stato primo consigliere d’Ambasciata a Berlino, quindi capo della missione Eulex in Kosovo (2014-2016). Dopo essere stato ambasciatore in Slovacchia (2017-2021), è stato nominato console generale a Lugano il 30 settembre 2021.