Il reportage

Sotto i palazzi di via Industria, fra degrado e voglia di cambiare

Parola agli abitanti di una zona di Lugano complicata dal punto di vista dei rapporti sociali e della convivenza fra culture – Dai loro racconti emergono frustrazione, chiusura e paura, ma c’è chi si impegna per risollevare il quartiere e dargli una nuova identità
© CdT/Gabriele Putzu
27.12.2022 06:00

Da una parte il degrado, le porte chiuse e gli sguardi abbassati. Dall’altra l’incontro, la solidarietà e l’integrazione. Via Industria a Pregassona (marchiata negli anni come una zona difficile, per quanto si possa parlare di zone difficili in una delle città più sicure al mondo) è sospesa fra due forze. Una tiene gli abitanti ancorati a una quotidianità anonima e disillusa, l’altra li spinge a cambiare e dare a questo luogo una nuova identità. Ci siamo andati.

La prima impressione del posto non rispecchia i fatti che lo hanno reso protagonista delle cronache negli anni passati. Come la retata antidroga del 2016, quando la polizia intervenne nel palazzone grigio al civico 17 e in altri due stabili, controllando centosessanta persone sull’arco di quattro giorni. Oppure il caso dell’appartamento che nel 2018 creò scalpore perché al suo interno venivano tenuti diciotto cani in pessime condizioni.

Curvando verso via Industria tutto appare pulito, le strade sono curate e sgombre. C’è silenzio, non vediamo persone che camminano o chiacchierano fra loro. Questo angolo di Lugano si ravviva soprattutto nel week-end, quando ragazzi e bambini giocano nel nuovo parco costruito pochi anni fa dal Comune con l’aiuto dell’Associazione Amélie. Non sembra esserci nulla di diverso rispetto a qualunque altra zona residenziale del Ticino. Fanno eccezione gli edifici dall’aspetto anonimo, come se chi ci vive fosse di passaggio e non sentisse la necessità di mostrare la sua presenza. Eppure qui di abitanti ce ne sono parecchi, in gran parte stranieri.

Lo testimonia il miscuglio di lingue che si sente nelle vicinanze del palazzo più imponente, attorno al quale le persone camminano a testa bassa, con i lineamenti tesi e gli occhi di chi non vuol essere disturbato. Dalla sua altezza, la «torre» pare tenere d’occhio la zona. Guardandola dal basso, appare ancora più fatiscente.

Non mi piace abitare qui, ma devo rimanerci perché non ho soldi e non riesco a trovare lavoro
Inquilino della torre

Arrabbiati ma rassegnati

Con grande difficoltà riusciamo a conversare con alcuni residenti. Appaiono introversi e riservati, ma lasciano trapelare il desiderio di condividere alcuni frammenti della loro realtà. Un inquilino della torre, padre di famiglia, attraversa la strada con passo incerto nei suoi abiti grigi. Accetta di parlarci, ma allontanandosi dalle altre persone e senza rivelare il suo nome. «Non mi piace abitare qui, ma devo rimanerci perché non ho soldi e non riesco a trovare lavoro» esordisce in un pessimo italiano e mostrando denti giallastri. «I vicini mi fanno tanti dispetti, tirano pugni contro la porta e il muro, e la mia famiglia ha paura». La frustrazione sul suo volto parla per lui. A un certo punto appoggia la mano sulla fronte massaggiandola con forza, e quasi piangendo esclama: «Una volta mi hanno defecato sullo zerbino di casa!». Arrabbiato e sconfortato, fissa il vuoto. Ma perché continuare a sopportare senza ribellarsi? La risposta arriva fulminea. «Non ci si può ribellare! In questo palazzo non esiste la giustizia e vige la regola della sopravvivenza: l’unica opzione è sopportare e tacere». Con quelle parole se ne va, quasi offeso. A pochi metri, una donna percorre il marciapiede con un vestito di stoffa colorato e i capelli brizzolati legati sulla nuca. Abbozza un sorriso freddissimo e si lascia avvicinare. Esitante, rivela il suo nome e snocciola una breve dichiarazione con l’evidente desiderio di tornare a casa. «Abitare qui non è facile, si è soli in mezzo a decine di famiglie. Non ho amici e non voglio averne. Non si sa neppure quante persone abitino nel palazzo, ed è sempre meglio farsi gli affari propri». Poi se ne va anche lei, come se stesse rientrando in una piccola prigione senza sbarre.

Un aneddoto inquietante

In un bar incontriamo un’altra donna, che insiste subito nel voler mantenere l’anonimato. Dice di lavorare nel quartiere da tempo e di «averne viste di tutti i colori». «Qui ci sono vari clienti fissi, ma poco socievoli, che si presentano sempre in piccoli gruppi e non parlano mai italiano» racconta facendo spallucce. «È difficile instaurare un rapporto con loro». Un’altra persona che lavora poco distante crede invece che la situazione, lentamente, stia migliorando, e che la clientela straniera sia diventata più amichevole. Con un’eccezione che suona abbastanza inquietante. «Nessuno lo ha mai dichiarato apertamente, ma esistono dei gruppi che in un modo o nell’altro decidono quando e chi può o non può frequentare determinati luoghi, compresi bar e ristoranti».

Qualche raggio di sole

Qualcuno, non seguendo il consiglio della donna che abbiamo incontrato in precedenza, in via Industria ha deciso di non farsi gli affari suoi, ma anche quelli degli altri. Per migliorare la vita di tutti. Parliamo dell’Associazione Amélie, le cui parole d’ordine sono integrazione e sviluppo sociale. Grazie alle donazioni e alla buona volontà dei suoi membri, il sodalizio cresce e investe tempo per dare agli abitanti della zona nuove occasioni, ad esempio organizzando dei corsi di lingua italiana, fornendo delle consulenze gratuite e aiutando i più piccoli a fare i compiti. «La nostra associazione, per quanto piccola, sta portando dei miglioramenti» osserva il presidente Marco Imperadore. «La gente che prima s’incrociava senza neppure guardarsi, ora ha cominciato almeno a salutarsi». La sede offre diversi locali dall’atmosfera ariosa e serena in cui giovani e adulti possono relazionarsi e condividere attività di ogni genere. Il ruolo di Amélie è ritenuto molto prezioso anche dalla Polizia di Lugano, come ci ha confermato la municipale Karin Valenzano Rossi. La situazione a livello di interventi nella zona è stabile. «C’è stata una riduzione solo durante il lockdown. La scorsa estate – prosegue la capodicastero – abbiamo avuto un vandalismo importante nei bagni del campetto, che sono andati a fuoco». Gli autori sono stati individuati grazie alle telecamere.

La nostra associazione, per quanto piccola, sta portando dei miglioramenti
Marco Imperadore

Cittadini di domani

Un’ispirazione per il futuro di via Industria viene dal suo passato, quando la zona aveva una vocazione industriale. A rievocare i tempi andati, e soprattutto l’atmosfera che si respirava, è il custode di un palazzo. «Un tempo qui era pieno di vita, di bambini che giocavano nei giardini e genitori che trascorrevano del tempo all’aperto» esordisce con un ampio sorriso, che però svanisce presto. «Ora invece il clima è totalmente diverso e le persone si riuniscono soprattutto nel nuovo parco giochi, per poi ritirarsi nelle proprie case e nelle proprie culture». Culture che il che il nostro interlocutore, per svolgere al meglio il suo lavoro, con il tempo ha imparato a conoscere. Le differenze, racconta, si palesavano anche nelle piccole cose, come i saluti alle donne musulmane che non potevano relazionarsi con alcun uomo all’infuori del marito, e che per questo non accoglievano bene la cordialità di lui.

«Per dimostrare il mio rispetto, talvolta non salivo neppure nell’ascensore con loro, affinché non si sentissero in imbarazzo». Un passo fondamentale per capirsi e accettarsi è la conoscenza della lingua, e su questo fronte sono attive Amélie e altre associazioni, ma il custode ammonisce: il problema è più profondo. «Bambini e ragazzi non sono spronati dalle loro famiglie ad integrarsi, così restano legati solo alle loro radici». Il futuro della zona è anche, o forse soprattutto, in mano loro.