Strade accartocciate, massi giganteschi e un’infinita frana
Increduli. Basiti. Sgomenti. È difficile, se non impossibile, descrivere a parole, in poche parole, che cosa si prova dinanzi all’ineluttabile forza della natura. Lo aveva ben detto, commosso, il sindaco di Lavizzara, Gabriele Dazio: «È una situazione che, se non la si vive sulla propria pelle, non la si può immaginare». Parole toccanti che ci sentiamo di sottoscrivere dopo aver visto, con i nostri occhi, ciò che domenica notte è accaduto a Fontana, frazione di Cevio, in Valle Bavona. Lì, la frana che ha portato con sé (via per sempre) tre vite, anche a due giorni di distanza, ha dell’incredibile. Quasi inaccettabile. E lascia letteralmente senza parole: inermi e minuscoli di fronte alla furia della natura. Una vera e propria colata di sassi (alcuni enormi, grandi come una palazzina), sabbia, alberi, acqua, larga almeno un centinaio di metri. Che ha portato via tutto. Tutto ciò che ha incontrato sulla sua strada.
Ancora evacuazioni
La nostra giornata, in Vallemaggia, inizia però ben prima di arrivare a Fontana. Inizia ad Aurigeno, al Centro scolastico, dove verso le undici del mattino il Super Puma dell’esercito stava ancora evacuando alcuni turisti provenienti da Fusio, in Lavizzara.
E qui troviamo chi, giustamente un po’ scornato, non vuol parlare con i giornalisti. Non vede l’ora di tornare a casa. Oppure troviamo chi, come Manuela, titolare dell’Unique Hotel di Fusio, ci racconta della «nottata orribile» di domenica. E soprattutto del senso di impotenza di fronte a eventi simili. «Abbiamo assistito alla furia della natura. Inermi. Aspettando che le autorità ci dicessero che cosa fare», racconta. «Quella di domenica è stata una nottata orribile. Il peggio, per noi, è stato avere ospiti e non poter dare loro risposte. Perché di risposte, purtroppo, non ne avevamo». Oppure c’è anche chi, come Davide Keller, presidente della Fondazione Chiesa di Mogno, si complimenta con gli enti di primo soccorso, che «hanno lavorato in modo impeccabile».
La furia della natura, però, non è ancora visibile da Aurigeno. Qui, è solo l’incessante rumore degli elicotteri a ricordarci che, lassù, è avvenuta una tragedia. Alle 11.30, il ponticello pedonale di Visletto, poco prima di Cevio, viene aperto anche ai giornalisti. È quindi lì che ci dirigiamo.
Il primo segnale
Il ponte principale è effettivamente il primo segno tangibile, in Valle, della forza distruttrice dell’acqua. L’imponente struttura, per buona parte crollata, dà subito l’idea di quanto accaduto domenica notte.
Gli operai, da una parte e dall’altra del ponte, sono al lavoro per tirare i cavi della fibra ottica, nel tentativo di ricollegare la valle al resto del mondo. Cosa che poi avverrà a metà pomeriggio, verso le 16. Il crollo del ponte, in maniera molto concreta, ha letteralmente tagliato in due la valle, isolandone la parte superiore. Fino a quel momento, infatti, una delle maggiori difficoltà riguardava l’impossibilità di comunicare con l’esterno. Solo un piccolo angolo di terra, una volta passato il ponte pedonale, consentiva ai cellulari di ricevere una singola «tacchetta». E non è un caso che diversi abitanti, da tutta la valle, durante la giornata hanno raggiunto quella precisa zona per poter finalmente dare proprie notizie ai loro cari. Decine e decine di persone (tra abitanti della zona, qualche turista e tutti gli enti di primo soccorso) radunate in quel lembo di terra, con la testa bassa sul telefonino, per mandare un messaggio, telefonare, ricevere le ultime notizie.
La visita di Amherd
Ed è anche in quel punto che nel primo pomeriggio arriva la presidente della Confederazione, Viola Amherd. «Era importante – ha detto ai giornalisti – vedere con i miei occhi che cosa è successo. Le immagini e i video, certo, davano già un’idea del disastro. Ma vedere tutto ciò dal vivo è un’altra cosa. Vedere la forza della natura, capire che cosa può fare l’acqua, beh, è davvero incredibile. Solo adesso, alla luce del sole, ci rendiamo conto di quanto tutto ciò è stato devastante». Già, incredibile. «I miei pensieri sono rivolti ai familiari delle vittime, ma anche ai responsabili dei Comuni coinvolti e alle autorità cantonali. Ci tengo a ribadire e sottolineare la mia solidarietà e quella della Svizzera tutta». Una solidarietà poi ribadita anche da Christian Vitta, presidente del Consiglio di Stato, e da Alain de Raemy, amministratore apostolico della Diocesi di Lugano.
Il primo «ostacolo»
Il ponte di Visletto, si diceva, è effettivamente il primo segno tangibile della forza dell’acqua. Ma molti disastri, in realtà, stanno un po’ più a Nord. In Lavizzara e in Valle Bavona. Da Cevio in su, però, siamo letteralmente «a piedi». E occorre quindi trovare un mezzo di fortuna per spostarsi. Fortuna che troviamo nella vettura (e disponibilità) di Germano Mattei, volto ben noto in valle, che si mette gentilmente a disposizione per «scortarci» verso Fontana. In cinque minuti di macchina superiamo Cevio e Bignasco. A Cavergno, poi, prendiamo la deviazione per salire in Bavona. Ma 500 metri più in là incontriamo già il primo «vero» ostacolo.
Il paesaggio che cambia
Una frana (che di primo acchito ci pare enorme, ma non è nulla in confronto a quella scesa a Fontana) blocca la strada. Anzi. Ha distrutto la strada. Lasciamo la macchina e diamo un’occhiata a Google maps (internet nel frattempo è tornato): a Fontana mancano due chilometri o poco più. Insomma, si parte. Scolliniamo la prima frana. E subito troviamo una cappelletta, costruita nel 1831 e «dedicata ai dolori di Maria Vergine», risparmiata solo in parte dalla colata di sassi larga una trentina di metri. La struttura ha retto, sì, ma è piena di detriti.
Proseguiamo lungo la strada, in alcuni punti leggermente crepata, ma tutto sommato ancora in ordine. Circa un chilometro più in là, iniziano a vedersi i segnali di ciò che è avvenuto a Fontana. I sassi riempiono la via. Gli alberi stanno un po’ ovunque lungo il fiume. Poi, man mano che ci avviciniamo a Mondada (frazione poco sotto Fontana), lo scenario cambia. Radicalmente. Superiamo un’altra frana, questa volta larga almeno 40 metri. Poi, poco più in là, la strada è essenzialmente divelta a metà e ricoperta di sabbia e detriti. I segni dell’acqua passata domenica notte, in questo punto, raggiungono l’altezza delle ginocchia. Il fiume, qui, ha di fatto invaso la strada cantonale che risale la valle.
Incontriamo, nel frattempo, anche qualche abitante che scende a valle. Uno di loro era proprio a Fontana, quella notte. È carico di zaini, per «portare via quello che si può». «Sono un miracolato», ci dice, raccontando l’improvvisa sveglia di quella notte e i sassi «che non rotolavano, ma scendevano alla velocità di un ‘tiro di schioppo’». La paura è ancora impressa nel suo volto. «Non ho paura del fuoco», dice ancora, «ma dell’acqua, invece...».
Giungiamo quindi sotto Mondada. A questo punto, l’unico tratto di strada che resta prima di essere sovrastato dalla frana è letteralmente accartocciato. Impressionante. Come fosse avvenuto un terremoto. Poi inizia la risalita lungo i massi di piccole, medie e grandi dimensioni. Altri cinque minuti di «scalata» e raggiungiamo la frana vera e propria. Scolliniamo. Increduli. Basiti. Sgomenti.
«Mai vista una cosa simile»
Le dimensioni della colata sono semplicemente spaventose. Difficili da descrivere. Perfino da comprendere. Un fiume che prima era largo qualche metro è stato ricoperto da una frana enorme, che nella parte finale misura centinaia di metri. «Non riconosco più nemmeno il paesaggio», dice Mattei, che quel luogo lo conosce bene. «Mi piange il cuore», aggiunge più volte. «Di alluvioni ne ho viste diverse, ma una così mai nella vita». Alcuni rustici sono fortunatamente rimasti in piedi, sfiorati dalla tragedia. Altri, invece, sono spezzati in due. Altri ancora non ci sono più.
Una parte della montagna, di fatto, si è staccata. Lasciando dietro di sé morte e devastazione. Alcuni dei massi caduti paiono inverosimili. Giganteschi, grandi come una palazzina di diversi appartamenti. La colata, lunga diverse centinaia di metri, sembra non avere né una fine né un inizio. Poi, quasi in fondo alla valle, l’occhio cade su un dettaglio. Ci avviciniamo. In mezzo ai tanti, tantissimi sassi, qualche asse di legno. Non sono alberi, ma travi di una casa che non c’è più. Lì accanto, un materasso giace sulle pietre. Quasi un monito. A ricordarci che lassù c’era la vita. E ora tutto tace.