«Stressati e impauriti», l'OSC testa il piano a difesa del personale

Aggressioni nei confronti del personale o verso gli altri pazienti. Ma anche atti di vandalismo, minacce e addirittura il lancio di oggetti o pietre contro i vetri. Il clima, all’interno della Clinica psichiatrica cantonale (CPC), è talvolta teso. «Nel 2023 abbiamo avuto un incremento importante delle segnalazioni di incidenti con pazienti», conferma in effetti Magda Chiesa, direttrice delle cure dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC). Gli episodi di violenza sono addirittura triplicati rispetto all’anno precedente, complicando non poco il lavoro degli operatori. «Abbiamo proceduto a un’analisi dettagliata del fenomeno perché, per mettere a punto una strategia che potesse contenere e prevenire le manifestazioni di violenza, dovevamo dapprima esaminare in modo sistemico quanto stava avvenendo». Il risultato? «Abbiamo per esempio trovato conferma che alla base degli eventi violenti c’è spesso un’aggressività strettamente correlata all’uso di sostanze stupefacenti. Inoltre, abbiamo constatato che laddove c’era una maggiore concentrazione di pazienti, sorgevano più facilmente problemi legati alla violenza». Contrariamente a quanto si possa pensare, poi, «le situazioni più esplosive non riguardano i pazienti in fase acuta, bensì coloro che vivono periodi di degenza prolungati il più delle volte derivanti da problemi sociali all’esterno, che ne rendono difficile un rientro sul territorio, ciò che contribuisce ad aumentare la loro frustrazione». Insomma, a generare tensione spesso non sono i pazienti in una fase di reale acuzie, ma degenti con altre problematiche. «Persone che hanno in comune un collocamento in psichiatria talvolta poco pertinente rispetto ai problemi di cui soffrono, ma per i quali mancano soluzioni abitative all’esterno». In sostanza, in CPC ci sono pazienti che, «in molti casi, non hanno una diagnosi di una patologia maggiore attiva, bensì un disadattamento sociale e una marcata difficoltà ad aderire e accettare regole di convivenza civile».
Il reinserimento territoriale
«Avere da noi persone che hanno una dipendenza importante espone anche gli altri pazienti, già molto vulnerabili, a rischi elevati», spiega Chiesa. Il percorso che si dovrebbe offrire alle persone con un problema di tossicodipendenza, superata la prima fase di crisi, sostiene la direttrice delle cure, dovrebbe mirare all’inserimento in una comunità o in un luogo di accompagnamento, di protezione. «Spesso questi pazienti hanno, a più riprese, dimostrato di non riuscire a condurre una vita autonoma e pertanto occorre intensificare la collaborazione con la rete territoriale al fine di assorbire la domanda e offrire una soluzione di vita protetta al di fuori di un contesto ospedaliero acuto. Questa diventa una reale emergenza soprattutto in un periodo contrassegnato da una grande pressione sulla CPC, con conseguente elevato tasso di occupazione».
La cura dei minorenni
Per quanto riguarda i pazienti minorenni «L’accoglienza in un contesto di psichiatria per adulti non è ciò che dovremmo garantire loro. Per questo stiamo lavorando alla creazione dell’unità integrata di pedopsichiatria, prevista nella nuova pianificazione sociopsichiatrica cantonale. Una struttura che auspichiamo possa dare quelle risposte di cui questi ragazzi necessitano». Nel messaggio sulla Pianificazione sociopsichiatrica cantonale, il Consiglio di Stato faceva notare in effetti che gli istituti ospedalieri psichiatrici presenti in Ticino «accolgono un numero importante di pazienti minorenni in situazione di disagio psichiatrico». In media, scriveva il Governo, «negli ultimi quattro anni si contano circa 60 ricoveri l’anno, con una durata media della degenza di circa 40 giorni, che comporta una presenza media giornaliera in tali strutture di 6-7 pazienti». Molti dei pazienti minorenni accolti alla CPC, dice Magda Chiesa, «arrivano in clinica dopo che precedenti progetti terapeutici e di inserimento in altre strutture sono falliti. Se da un punto di vista clinico il problema rientra piuttosto in fretta, resta la grande incognita rispetto a dove inviare il ragazzo alla risoluzione del quadro clinico». A volte la famiglia non c’è o non è più in grado di occuparsene, altre risposte istituzionali si sono già dimostrate inadeguate e l’estrema ratio resta la clinica psichiatrica, con una degenza che si protrae a lungo. «Abbiamo ragazzi che restano settimane, o addirittura parecchi mesi, in un contesto che blocca tutto ciò che un ragazzo in fase evolutiva dovrebbe poter vivere in termini di socializzazione, scolarità e avvicinamento al mondo professionale». Esperienze, queste, che nonostante gli sforzi non possono essere garantite dagli operatori della CPC. «Lo ribadisco: la CPC non è il contesto adatto a loro. Il minore infatti si confronta quotidianamente con un’utenza adulta, della quale finisce per emulare, negli scenari più sfavorevoli, gli stili comunicativi e di condotta. Abbiamo evidenti limiti per quanto riguarda la presa in carico dei pazienti minorenni, non da ultimo rispetto al personale, che nonostante abbia una specializzazione in psichiatria, non è formato, salvo alcune eccezioni, in pediatria e pedopsichiatria e che deve continuare a rispondere ai bisogni del resto dell’utenza adulta. Diventa difficile, quindi, far fronte alle esigenze di giovani che spesso hanno problemi legati alla difficoltà di gestire le frustrazioni, all’incapacità di controllare gli impulsi e talvolta anche un problema di abuso di sostanze».
Cresce l’insicurezza
Una situazione complicata, dunque, che ha reso sempre più duro il lavoro degli operatori. «È la frequenza degli incidenti, più che la loro gravità, a generare una sensazione d’insicurezza tra il personale, impedendo agli operatori di lavorare con la necessaria serenità, e questo è purtroppo un fenomeno che si sta osservando anche a livello nazionale e internazionale», dice Chiesa. Dal suo osservatorio, la direttrice delle cure dell’OSC ha rilevato un crescente disagio «anche per il personale di lungo corso che, malgrado le competenze e l’esperienza, ha incontrato grandi difficoltà a gestire lo stress». Non a caso, alla CPC, nei mesi in cui i fenomeni legati alla violenza hanno raggiunto l’apice, si è registrato un aumento dei giorni di assenza. «O perché il personale è stato aggredito fisicamente e ha dunque riportato conseguenze che hanno reso necessario uno stop temporaneo, o perché alcuni sono arrivati allo stremo». Non sono pochi i collaboratori che, dice Chiesa, raccontavano di vivere la giornata lavorativa con ansia: «Questa incertezza genera sconforto tra il personale e confronta gli operatori, costantemente, con la propria impotenza, rendendo complicato il lavoro. Malgrado gli operatori abbiano un grande attaccamento al ruolo, ai pazienti e all’istituzione, rivendicano giustamente il fatto di aver scelto una professione di cura e non di controllo sociale. Ragione per cui molti hanno deciso di verbalizzare il proprio malessere». Stando alla risposta fornita dal Consiglio di Stato all’interrogazione del granconsigliere Danilo Forini (PS), «il 73,7% degli operatori toccati ha descritto questi incidenti come molto gravi», ed è facile pensare che gli episodi di violenza siano tra le principali cause che spingono il personale ad abbandonare la professione. «È difficile, però, dire con certezza quanto la situazione attuale abbia spinto parte del personale ad andarsene. Forse può essere stata una concausa per i dipendenti più giovani, ma di fatto non lo sappiamo», commenta Chiesa, la quale annuncia però l’intenzione di volerci vedere chiaro. «Intendiamo monitorare meglio anche questo aspetto, motivo per cui stiamo perfezionando uno strumento d’indagine che ci permetta di capire i motivi alla base delle dimissioni».
Strategia su più fronti
Da qualche tempo, secondo la direttrice delle cure, la situazione è comunque migliorata. «Abbiamo messo in campo una serie di strategie che lentamente sta portando i primi risultati. Stiamo cercando di dare una risposta su più fronti al tema dell’aggressività crescente: in ambito formativo, preventivo, gestionale. Ma anche in termini di supporto. Per far fronte a situazioni di emergenza, ad esempio, abbiamo rivisto le procedure di intervento e rafforzato la formazione in questo ambito». Parallelamente, è prevista una riorganizzazione dei reparti, per evitare una concentrazione di situazioni a rischio e offrire un contesto più protetto a persone con problemi di dipendenza. Si è perfezionata la collaborazione con la Polizia cantonale e comunale e si è introdotta la presenza di un agente di sicurezza nelle ore serali e notturne, si è costituita una commissione che vigili costantemente sui problemi della sicurezza. «I primi frutti si colgono già, speriamo di essere sulla buona strada».