Giudiziaria

Tre società luganesi sotto indagine per una presunta truffa del lavoro ridotto

Sono attive nell’ambito dei casalinghi e fanno capo allo stesso amministratore unico: dopo due anni di inchiesta si avvicina il rinvio a giudizio - Sotto la lente quasi mezzo milione di franchi forse ottenuto illecitamente
©CdT/Gabriele Putzu
Federico Storni
30.09.2023 06:00

Tre società di Lugano, attive nell’ambito della vendita di mobilio e di casalinghi, sono sotto inchiesta in quanto avrebbero ottenuto illecitamente quasi mezzo milione di franchi in indennità per lavoro ridotto che in realtà non sarebbero loro spettate. Le ipotesi di reato, ci ha confermato il Ministero pubblico, sono quelle di truffa, ottenimento illecito di prestazioni di un’assicurazione sociale o dell’aiuto sociale, falsità in documenti e infrazione alla Legge sull'assicurazione contro la disoccupazione. Quali imputati nell’inchiesta hanno figurato l’amministratore unico delle tre società, tutte domiciliate allo stesso indirizzo, e un contabile. La stessa si trova nelle sue battute finali, dopo essere stata aperta nell’estate del 2021 in seguito alla segnalazione di un dipendente e riguarda sostanzialmente il periodo da marzo 2020 a settembre 2021.

«Non ne avevano diritto»

La vicenda emerge da delle recenti sentenze in ambito civile emesse dal Tribunale cantonale delle assicurazioni, in base alle quali abbiamo chiesto le conferme citate in ingresso alla Procura. Le sentenze riguardavano le richieste della Cassa di disoccupazione delle tre società di riavere quanto da loro indebitamente ottenuto, quantificato appunto in quasi mezzo milione di franchi. E, sebbene il Tribunale abbia ordinato di riconteggiare al ribasso la cifra (ma il totale non dovrebbe diminuire tanto), lo stesso ha riconosciuto che le tre società «non avevano oggettivamente diritto» a ottenere indennità per lavoro ridotto per i propri dipendenti «in quanto il tempo di lavoro non era sufficientemente controllabile». Pertanto «a prescindere dall’esito finale della vertenza penale, la restituzione delle indennità per lavoro ridotto si impone».

Questa decisione è basata sul fatto che le tre società non hanno rendicontato sufficientemente bene le ore effettivamente lavorate dai dipendenti, e questo fatto in sé - alla luce della Legge sull’assicurazione contro la disoccupazione - è sufficiente per negare il diritto alle indennità, perché rende difficile se non impossibile fare le verifiche del caso. Questo a prescindere se la mancata computazione sia stata fatta con l’intenzione di truffare il sistema o senza malizia. Tema che sarà oggetto del procedimento penale. Vale la pena sottolineare che l’amministratore unico, in sede civile, si è già impegnato a restituire gli importi illecitamente ottenuti. A questo scopo gli sono peraltro stati sequestrati degli immobili di proprietà.

C’era inganno astuto?

E veniamo al procedimento penale. Durante gli interrogatori, l’amministratore ha ammesso di non avere sotto controllo quanto lavoravano i propri collaboratori (dalle sentenze emerge una trentina di dipendenti, ma è possibile che alcuni siano impiegati per più società) e ha ammesso di aver calcato la mano sulle indennità per lavoro ridotto durante il periodo pandemico e di non essere in grado di quantificare le ore lavorate in eccesso rispetto alle richieste di indennità di lavoro ridotto. Ha però riconosciuto che fossero più del 10%. Quanto all’accusa di aver coscientemente creato e mandato dei conteggi ore fittizi alla Cassa disoccupazione, ha spiegato che in realtà non tutti timbravano malgrado la presenza di un apposito apparecchio. Da parte loro, una parte consistente degli impiegati ha dichiarato di credere di aver lavorato in misura maggiore rispetto a quanto indicato alla Cassa disoccupazione.

A proposito dell’apparecchio per timbrare, vi è da notare che non è più stato usato dopo il primo controllo dell’Ispettorato del lavoro, sempre nell’estate 2021, a poche settimane dalla segnalazione giunta da un impiegato. Anzi, è stato proprio rimosso, e le tre società sono passate a segnare le presenze giornaliere su un foglio. Sul perché l’apparecchio sia stata rimosso, le versioni divergono. L’amministratore delegato ha sostenuto che si sia rotto durante i controlli dell’Ispettorato del lavoro, ma vi è il sospetto che possa essere stato un tentativo per nascondere le ore effettivamente lavorate dagli impiegati. Se così fosse, si tratterebbe di un indizio della volontà di intorbidire le acque da parte dell’imputato. Se sia così, e per le persone coinvolte vige la presunzione d’innocenza, sarà però il processo penale a stabilirlo.