L’intervista

«Un lunedì seduto alla scrivania mi venne l’idea della Fidinam»

A colloquio con l’avvocato e finanziere Tito Tettamanti sui 60 anni della fiduciaria da lui fondata a Lugano
Fabio Pontiggia
Fabio Pontiggia
23.11.2020 06:00

La Fidinam compie oggi sessant’anni. Venne fondata il 23 novembre 1960 a Lugano. Allora fu un’iniziativa molto innovativa: le fiduciarie non esistevano in Ticino. L’idea fu di Tito Tettamanti, uscito pochi giorni prima dal Consiglio di Stato. Oggi è il presidente onorario del gruppo. Lo abbiamo intervistato.

Avv. Tettamanti, in occasione del cinquantenario lei smitizzò la ricorrenza e disse che la costituzione della Fidinam rispondeva solo ad una modesta esigenza dello studio legale notarile di cui era contitolare: offrire servizi amministrativi e contabili ai clienti. Non ci fu davvero altro?

«Le cose andarono così. A metà 1960 io “sono stato andato” via dal Consiglio di Stato. Avevo scritto la lettera di dimissioni il sabato. Il lunedì mattina ero tornato in quello che era stato il mio ufficio legale, nel frattempo diretto dall’amico e contitolare Giangiorgio Spiess, e mi son seduto alla scrivania. Mi son chiesto: cosa faccio? E ho risposto: voglio fare l’avvocato d’affari. Allora gli avvocati d’affari non esistevano. Non si sapeva bene cosa potessero essere e anche per me era un concetto un po’ nebuloso”.

E per quale ragione, trentenne appena uscito dalla politica, pensò a quella scelta?

«In Governo ero a capo del Dipartimento di giustizia e polizia. Consigliato dal grande giudice Gastone Luvini avevo preso atto della mia facoltà, dal profilo organizzativo e disciplinare, nei confronti dei magistrati. E quindi ero andato a fare delle visite per sapere come i magistrati lavorassero. Sorrido quando sento certe cose sulla magistratura attuale: nemmeno allora erano tutti stakanovisti e anche allora c’era chi non aveva capacità di decidere. Morale: non mi son fatto grandi amicizie e ho dedotto che non avrei voluto fare l’avvocato classico per non farmi giudicare dalle persone con cui mi ero un po’ urtato».

Una sorta di diversivo in funzione preventiva?

«È un pretesto. In realtà, a metà anni Cinquanta, prima di andare in Consiglio di Stato, mi ero fatto una buona clientela italiana, assistendola negli affari. Ho avuto insomma la possibilità di fare delle esperienze professionali notevolissime. Mi interessava molto di più quel genere di attività, anche perché allora l’avvocato era un generalista, mentre oggi c’è molta specializzazione. Mi sono accorto però che mi mancava qualcosa: l’assistenza per gli aspetti contabili, amministrativi e fiscali. Non c’erano le fiduciarie, bensì i ragionieri, che erano personaggi importanti anche nella vita sociale ma erano professionalmente individualisti, con i loro uffici che funzionavano anche molto bene, e avevano grande autorevolezza. Non erano tuttavia a disposizione, mentre io avevo bisogno di uno strumento che mi accompagnasse quotidianamente, con tempestività: non potevo dipendere dai legittimi tempi di lavoro di questi ragionieri, più anziani e affermati di me. E quindi mi è venuta questa idea di fare la Fidinam assieme a Spiess e all’avvocato Dotta. E così è partita: con due persone che facevano tutto. È andata bene».

Chi ha scelto il nome?

«Credo di averlo inventato io. Voleva dire: Fiduciaria di investimenti e amministrazioni».

La prima sede dov’era?

«Nel Palazzo Huguénin, dove avevamo allora lo studio legale, al primo piano. Al terzo o al quarto piano avevo lasciato libero l’appartamento dove prima vivevo. Lì si erano sistemati i due primi collaboratori Renato Zocchi e Franca Ortelli. Zocchi era funzionario statale nel settore fiscale: quando sono uscito dal Governo aveva dato le dimissioni affermando che ero stato trattato in modo indegno. E non sapeva nemmeno dove sarebbe andato a lavorare».

In quei primissimi anni non si è mai detto: cosa ho fatto? Ho sbagliato strada?

«No, proprio no. Forse per incoscienza, ma è un dubbio che non mi ha mai neppure sfiorato».

Se avesse trent’anni rifarebbe la stessa scelta?

«Certo, avendo trent’anni sì, nella realtà di allora. La Fidinam era funzionale alla mia nuova attività, anche fuori del Ticino».

Un esempio?

«Il Canada nel 1965. Tutto nacque da un mio gravissimo errore di valutazione sul mercato immobiliare nostro: ero convinto che i prezzi di case e terreni fossero ormai troppo elevati e che non si potessero più fare affari in Svizzera acquistando e vendendo immobili. Ma quel grosso errore è stato un grande vantaggio. Avendo fatto mentalmente il giro del mondo ho concluso che i tre Paesi in cui si poteva andare a fare affari immobiliari erano l’Australia, dove siamo tuttora molto molto presenti, gli Stati Uniti e il Canada. L’Australia per me era troppo lontana, gli USA erano un mercato molto duro per chi voleva entrarvi, battuto da molti concorrenti con enormi mezzi a disposizione. E quindi mi son detto che il posto migliore fosse il Canada: un mercato più giovane che richiedeva meno mezzi. È stata una grande fortuna. Unita all’intuizione di non fermarmi a Montréal, dove invece si fermavano in genere gli operatori italiani, perché i voli intercontinentali portavano lì e perché erano convinti che si parlasse francese anche nel mondo degli affari, dimenticando che allora nel Québec si parlava francese con il tassista ma per andare in banca bisognava masticare l’inglese».

E lei ha scelto?

«Sono andato a Toronto, che aveva un’impronta più americana, nel momento in cui la città si era sviluppata in un modo eccezionale. Sull’arco di 15 anni lì abbiamo fatto cose abbastanza importanti e di grande successo, grazie anche all’inflazione. Siamo arrivati ad avere 300 dipendenti alla Fidinam di Toronto».

Dieci anni fa lei sintetizzò la strategia aziendale così: piantare e levare le tende con flessibilità e tempismo. Vale ancora oggi?

«Sì e no. È sempre così perché negli affari bisogna sapere anche quando è il momento di ritirarsi. Però non è più così nel senso che la Fidinam di oggi è più diretta e finalizzata ad avere della clientela: non è legata a iniziative che prendevo io. Il mio successore, l’avvocato Massimo Pedrazzini, cura lo sviluppo di uffici e sedi Fidinam in Oriente: Hong Kong, Singapore, Indocina, Australia, dove amministriamo parecchi immobili d’ufficio tra Melbourne e Sydney».

In sessant’anni avete formato molte persone. Si può considerare la Fidinam anche una scuola per dirigenti aziendali e per professionisti?

«Senz’altro. Ma con lo stile di un tempo. Si andava su una ricerca diversa, c’erano i contatti personali. Ma soprattutto sono sempre stato dell’avviso che bisognasse assumere le persone in base al feeling: se si ha l’impressione che la persona sia valida, la si butta in acqua. E se sa nuotare sta galla. Dalla Fidinam è passato almeno un migliaio i collaboratori. Almeno una decina di grandi professionisti si sono poi affermati. Forse in alcune occasioni non abbiamo avuto il coraggio o la prontezza di assumere talenti dall’esterno, offrendo condizioni particolari. Ma ne abbiamo formati».

Si è mai sentito maestro di qualcuno in questo senso? Ogni direttore d’orchestra, anche il più burbero, ha almeno un suo delfino, un pupillo, un allievo su cui scommette. Le è capitato?

«Anche qui, sì e no. Se si riferisce a chi mi è succeduto ai vertici, come Massimo Pedrazzini o Roberto Grassi, sì. Però non mi sono mai posto come loro esempio, quindi in questo senso no. Sono dell’idea che se uno ha talento e qualità, deve farle valere senza imitare nessuno. Sarebbe un errore cercare di imitare. Del resto non sono uno che lascia eredità: faccio. Se poi qualcuno mi segue, bene, altrimenti non mi preoccupo che non mi segua».

Senza cadere nei luoghi comuni o nelle mode, va detto che i profili femminili restano pochissimo presenti ai vertici aziendali in Ticino. La Fidinam non fa eccezione: nel CdA una sola donna, nella Direzione nessuna. Come mai?

«Dunque, per questo si rivolga ai miei successori. Il CdA è un altro paio di maniche, ma quanto ai quadri dirigenti, quando ancora questo non era un tema, ho avuto diverse cape-ufficio, procuratrici, vicedirettrici, direttrici».

La più grande soddisfazione che la Fidinam le ha dato?

«Che ci sia ancora. Con il 60% dell’azionariato in mano alla Charity Foundation, per attività di filantropia, e il 40% in mano ai dirigenti, con la missione di tenere in piedi anche la parte ticinese perché è sempre un’entità di successo in questo Paese: dà lavoro e ha creato altre forme di lavoro a beneficio del Ticino».

E l’amarezza più profonda?

«Sono forse un po’ incosciente e non penso molto alle amarezze. C’è stato naturalmente qualche personaggio che ha deluso, ma questo è normale, può succedere, quando salta fuori la vera personalità. Ma sono stati casi rarissimi. Per contro, ho un forte senso di gratitudine per tutte quelle persone che hanno lavorato per il successo della Fidinam. A parte adesso con la pandemia, li ritrovo a colazione e li conosco uno per uno. Sono sempre stato molto esigente e molto duro: però i collaboratori sapevano che potevano contare sulla mia lealtà e sul mio impegno nel difenderli verso l’esterno. Quando era necessario, io c’ero. Prima di Natale li ricevevo per un breve colloquio singolarmente. Son queste le cose che creano il rapporto umano all’interno di un’azienda».

Accanto alla Fidinam che lavora c’è anche la Fidinam che aiuta, che incentiva e stimola il dibattito e lo studio: la Fondazione Fidinam. Come nacque l’idea?

«Le mie tre figlie tempo fa mi avevano fatto capire che la cosa peggiore che potesse capitare loro era lavorare con me. Siccome sono contro il nepotismo e per la meritocrazia e siccome ho visto tanti figli infelici perché costretti a seguire le orme dei genitori, mi sono adeguato. Libere loro quindi fare quello che volevano. Poi sono stato un padre piuttosto assente. Non potendo lasciare nulla alle figlie, non avendo ad esempio creato un’industria, ho creato un fondo, il Charity Found, che permette di restituire alla società quei soldi che il sistema di mercato allora mi ha permesso di fare. Le mie figlie hanno accettato questa idea di buon grado e con molta intelligenza».

«Sostenere e divulgare il sistema capitalistico di produzione della ricchezza, adottando misure atte a sviluppare la conoscenza dell’economia di mercato»: è uno degli scopi della Fondazione. Dirlo oggi è quasi politicamente scorretto. Eppure molto necessario. È una battaglia difficile? O disperata?

«Disperata no, molto difficile sì, sicuramente doverosa. Non vedo infatti perché questo sistema non debba essere a disposizione anche delle future generazioni per permettere ad altri di creare ricchezza come ha fatto la Fidinam».

Rimane ottimista sul futuro dell’economia di mercato?

«Discorso molto difficile. Bisogna difenderla. Se dovesse arrivare il diluvio, ci si domanderebbe come poter di nuovo creare ricchezza. Lo sappiamo bene: non si distribuisce nulla se nulla si crea. Allora forse qualcuno rinsavirà. La battaglia è tutt’altro che facile».

È più ottimista sul futuro della Fidinam?

(sorride) «Devo dire di sì. La Fidinam può andare in giro per il mondo».