Il corso

Una risposta formativa alle aggressioni

Permettere al personale sanitario di contenere i danni – Cavolo (SUPSI): «In questa professione ci si prepara con la formazione» – La sensibilizzazione non basta, occorrono alcune precise competenze
© CDT/Gabriele Putzu
Paolo Galli
22.04.2024 06:00

«Nel 2023, a seguito anche di un’accresciuta sensibilizzazione e propensione alla segnalazione, sono stati annunciati 332 incidenti: 180 di questi (54%) sono stati caratterizzati da aggressione fisica verso il personale o altri pazienti, che in taluni casi hanno comportato la necessità di una visita al pronto soccorso». La risposta del Consiglio di Stato all’interrogazione di Danilo Forini risale allo scorso 20 marzo. Nella stessa non si nascondevano alcune cifre davvero preoccupanti riguardanti la quotidianità dell’OSC. E mentre il Cantone parla di migliorare il coordinamento dei differenti attori coinvolti, la categoria stessa - e non parliamo solo dell’OSC, evidentemente - prova ad adeguarsi ai rischi. Come? Ne parliamo con Mariano Cavolo, responsabile della Formazione continua dell’area sanità della SUPSI.

Frustrazione e aggressività

Con il professore partiamo da più lontano, dalla lettura del fenomeno. «Un fenomeno sicuramente non nuovo», esordisce. «Certe manifestazioni sintomatiche del disturbo psichico possono contemplare anche reazioni aggressive, vuoi per paura da parte del paziente o particolari forme di intossicazione da alcol o sostanze. Quello che è cambiato è sicuramente la pretesa di avere tutto e subito, oltre alla poca considerazione e al poco rispetto di limiti e regole. Questo comporta il fatto che molto facilmente si entra in una spirale di impedimento della soddisfazione di un bisogno, che innesca sentimenti di frustrazione, che a sua volta alimentano l’aggressività». Secondo Mariano Cavolo, non per forza questa tendenza allontanerà i giovani da questa professione. La questione è più complessa. «Sì, non credo che questo fenomeno, legato all’aumento di aggressioni, incida sul numero di studenti in formazione. Chi sceglie questa professione ha in cuor suo una sorta di fiducia - condizionata - verso la formazione, ma anche e soprattutto verso le Istituzioni che li accoglieranno una volta laureati. Certo che se l’Istituzione non ha a cuore la sicurezza e l’incolumità del proprio personale, allora anche i neolaureati neoassunti si sentono “traditi” e svilupperanno un sentimento di sfiducia verso l’Istituzione, fino ad andarsene».

Tre cose da fare

In questo senso, la SUPSI ha previsto un corso di formazione dove vengono proposte alcune strategie per ridurre il rischio di esposizione alla violenza per il personale delle strutture sanitarie. Di che cosa si tratta? «È un corso che vuole essere una risposta, quanto meno formativa, al fenomeno delle aggressioni. Tre sono le cose da fare». Mariano Cavolo parte dal primo punto: «Mantenere il personale costantemente formato e allenato, anche per fronteggiare nuove forme di aggressività o di reazione violenta alla frustrazione». Il secondo: «Dichiarare l’Istituto un luogo di cura in cui nessuna forma di violenza è accettata. Se questa si manifesta - verso il personale o altri pazienti - vi devono essere delle conseguenze penali, o quantomeno una segnalazione alla Magistratura». E infine: «Dotare il personale di presidi che consentano immediatamente di allertare i colleghi o la polizia in caso di aggressione o grave manifestazione di violenza. Ecco, noi offriamo la parte legata alla formazione, mentre il resto è appannaggio delle Istituzioni». Il professore insiste sull’importanza della formazione:  «Sì, in questa professione ci si prepara con la formazione, e tanta anche. Solo continuando ad allenare un’abilità si diventa esperti. In questo caso l’abilità da formare e mantenere allenata è la relazione in situazioni di rischio o definite difficili. La sensibilizzazione verso il fenomeno non basta. Vale lo stesso principio delle manovre salvavita in caso di arresto cardiaco. Non basta il corso samaritani, prima dell’esame di guida, per dire che si è in grado di rianimare una persona». La retorica della missione, da sola, insomma, non regge più. Qui parliamo di competenze tecniche, «ad iniziare da quelle relazionali, con le quali si affrontano le situazioni a rischio allo scopo di prevenire o evitare che si arrivi all’aggressione vera e propria». Non di meno vi è anche la necessità di sviluppare «la capacità di far fronte all’episodio quando accade. Chi si prende a carico delle vittime? In che modo? Che cosa non ha funzionato nella messa in pratica del processo di de-escalation dell’aggressività? Quali interventi sarebbero stati più efficaci? Come potremmo migliorarci per l’immediato futuro? Non so quanti Istituti, confrontati con il fenomeno dell’aggressività crescente, si pongano queste domande».

Lo zampino del lockdown

Continuiamo a riflettere con Mariano Cavolo sulle dinamiche, su un fenomeno che non può lasciarci indifferenti. «C’è una crescente aggressività nella società in Svizzera, lo affermano le statistiche», fa notare il professore. «E questo si ripercuote anche nei luoghi di cura, che sono uno spaccato della società. Potrei spingermi oltre, affermando che lo zampino potrebbe avercelo messo anche il lockdown, impedendo a una generazione di giovanissimi di confrontarsi, interagire e far fronte alle difficoltà con empatia e accoglienza».