Una truffa da quindici milioni e oltre cento clienti raggirati

È una storia di truffa che ha radici lontane quella approdata questa mattina a Palazzo di giustizia. Una vicenda architettata ad arte, con metodi affinati nel tempo, svolta sull’orlo dell’equivoco da due 54.enni tedeschi e che ha visto coinvolti oltre cento clienti raggirati (o quasi), per un totale di almeno quindici milioni di franchi indebitamente raccolti tramite una rete di consulenti finanziari ignari di tutto. I due imputati, assenti giustificati davanti alla Corte delle assise criminali, sono stati definiti senza mezzi termini «truffatori» dal procuratore pubblico Daniele Galliano, il quale ha ereditato un incarto passato di mano più volte. I due sono accusati di truffa aggravata (ammessa), falsità in documenti (contestata) e, solo per uno, tentato inganno nei confronti dell’Autorità (contestato).
Il biglietto da visita
L’atto d’accusa parla della costituzione, nel 1995, di una società con una succursale a Lugano il cui nome, però, non è stato scelto a caso. E nemmeno il logo. Sono infatti molto simili a quelli di un colosso industriale inglese. L’idea degli imputati è quella di raccogliere più denaro possibile. Per metterla in pratica, invece, ci vuole maestria. Creano così dei prospetti accattivanti e che rafforzino l’immagine della Svizzera come posto sicuro. Questo «marketing della truffa» viene costruito grazie a una rete di consulenti finanziari, ignari di quello che stava accadendo. Il raggiro – «quello più usato, il prodotto per eccellenza», per dirla con le parole di Galliano –, consisteva nel far credere ai clienti, tutti cittadini tedeschi vicini alla pensione e che si fidavano dei consulenti, di investire il denaro in fondi pensionistici al fine di garantirsi una sicurezza finanziaria. I soldi, poi, confluivano in un solo conto bancario, «un unico calderone», e venivano utilizzati metà con la tecnica del «buco tappa buco» per rimborsare altri clienti e l’altra metà per «fare la bella vita». Nell’atto d’accusa figurano anche dei falsi estratti conto dei clienti, la «pistola fumante», secondo il procuratore pubblico, che configurano il reato di falsità in documenti. In buona sostanza venivano creati dei file Excel in cui era possibile modificare tutti i parametri. La macchina ben rodata dai due imputati è andata avanti per anni fino al 2015, quando la Finma, l’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari, avvia un’indagine amministrativa, blocca i conti e segnala tutto al Ministero pubblico, che apre un’inchiesta penale.
La mente e il braccio
Galliano ha chiesto una pena di 5 anni e 3 mesi e l’espulsione dalla Svizzera per 15 anni alla «mente del sodalizio, quello che rimane dietro le quinte, ammette che qualcosa non è andato per il verso giusto, ma tende a sminuire il suo agire». Per il «braccio», invece, propone una pena più alta, 6 anni da dedursi il carcere preventivo già sofferto (è stato in prigione 8 mesi tra il 2016 e il 2017 a seguito dell’indagine della Finma, ndr) perché «era la parte operativa, quello che incontrava i consulenti finanziari e affinava le tecniche, è il mago dell’informatica, l’apice della piramide e l’architetto della truffa. È lui che ostenta il denaro, giunge in Svizzera per primo e si stabilisce nel Luganese».
Di ammissioni e lassi di tempo
Il problema principale sollevato dalla difesa – l’avvocata Demetra Giovanettina e l’avvocato Marco Bertoli – è il fattore tempo. Entrambi contestano inoltre il reato di falsità in documenti. Quanto successo risale infatti a quasi dieci anni fa e «si dibatte oggi con una crassa violazione del principio di celerità». «Arriviamo in aula dopo un lungo cammino le cui tracce, se ci guardiamo indietro, si sono per lo più sbiadite», ha detto Giovanettina, riferendosi al fatto che gli accertamenti «si sono sedimentati nel tempo» e l’incarto è passato da più mani. Il reato principale di truffa aggravata non viene contestato perché il suo assistito, in un verbale, ha riconosciuto di «aver sbagliato, di non aver realizzato quello che aveva prospettato ai clienti e di aver investito in modo non strutturato». Così non è stato per la falsità in documenti. Giovanettina e Bertoli hanno contestato questo capo d’imputazione attribuito ai due imputati: «Non si tratta di estratti conto bancari e non hanno ingannato gli investitori, piuttosto di documenti che attestano gli importi dei clienti verso la società. Non si può parlare di falso materiale e neppure di falso ideologico».
Giovanettina si è anche concentrata sull’utilizzo del denaro, definito «edonistico» dal procuratore pubblico. «Sì, il mio assistito ha usato i soldi in modo diverso, ma sempre investendoli per far funzionare le cose». A fronte di tutto, l’avvocata ha chiesto una pena sospesa non superiore ai 3 anni «visto il tempo trascorso dai fatti» e rigettato la richiesta di espulsione. Sulla parte del profitto indebito di denaro gli ha fatto eco Bertoli, sostenendo la tesi che «non c’è un dettaglio chiaro sul destino di questi fondi e la componente criminogena dell’autore dipende dall’utilizzo che ne viene fatto». In realtà, ha proseguito, il denaro raccolto «è stato iniettato nella società, quindi non è un indebito profitto visto che i soldi sono confluiti nella società, che è andata avanti a operare, e non nelle tasche del mio assistito».
Per questi motivi Bertoli ha chiesto una massiccia riduzione della pena, pari a 3 anni sospesi dedotto il carcere preventivo già sofferto. La sentenza verrà pronunciata domani pomeriggio alle 15 dal presidente della Corte, Amos Pagnamenta.