La testimonianza

«Vivere normalmente, fidandosi di chi ti aiuta»

La 25. Giornata mondiale della malattia di Parkinson mette l'accento sull'importanza delle cure familiari
© CdT/Archivio
Dario Campione
11.04.2022 06:00

«Esserci, ma non fino all’esaurimento delle forze». Esserci, prendersi cura degli altri, di chi è malato. Ma senza trascurare sé stessi. Senza pensare di poter risolvere ogni problema, di poter affrontare tutte le situazioni - anche le più critiche - facendo leva soltanto sulle proprie risorse. In occasione della 25. Giornata mondiale della malattia di Parkinson, celebrata oggi nell’anniversario della nascita di James Parkinson, il medico inglese che nel 1817 descrisse per la prima volta la “paralisi agitante”, la sezione ticinese di “Parkinson Svizzera” torna a mettere l’accento su uno dei temi che in modo trasversale interessano tutti coloro i quali hanno incontrato, o incontrano, sulla propria strada, il Parkinson: l’importanza delle cure familiari.

Il prossimo 27 giugno sarà riproposto, a Lugano, il seminario rivolto appunto ai “caregiver”, a chi segue da vicino in modo costante e quotidiano un congiunto affetto dalla malattia. «Parkinson Svizzera ha scelto di realizzare questo incontro con l’obiettivo di trovare soluzioni concrete ai problemi che nascono nelle famiglie in cui è presente un malato di Parkinson - dice Antonietta Sinopoli, assistente sociale e coordinatrice dell’associazione in Ticino - Lo faremo a partire dalle testimonianze dirette di chi partecipa e da quanto emerge di continuo in “Ticino i congiunti”, il gruppo di auto-aiuto attivo nel nostro cantone sotto la guida di Eveline Soldati».

Ancora una volta, sono le parole di una “testimone” a far capire, molto meglio di altre, che cosa oggi sia la malattia di Parkinson e come possa essere affrontata, alla luce anche dei molti progressi che la scienza ha compiuto.

Questa testimone è Rita, il cui marito è affetto dal Parkinson ormai da 22 anni. Un tempo molto lungo, «durante il quale siamo riusciti anche a sorridere. È chiaro - dice Rita - la vita cambia in modo radicale, ma bisogna accettarlo, anche se all’inizio non è facile. La cosa più brutta, almeno per me, è non poter mai dire come andrà domani: non c’è regolarità, forse questo è ciò che crea più ansia». Il marito di Rita ha scoperto la malattia quando aveva 52 anni. Ha continuato a lavorare fino alla soglia dei 60, poi è andato in pensione. «Nei primi tempi, nessuno sapeva della malattia. Il processo di accettazione è stato lungo, non sempre è facile mostrarsi fragili. D’altronde, ti arriva addosso all’improvviso qualcosa che non ti aspetti».

La diagnosi precoce della malattia ha aiutato Rita e il marito a «prendere le misure», ad affrontare gli eventi in modo non caotico. «La cosa importante è continuare a vivere normalmente, fidandosi di chi ti aiuta. Noi abbiamo una fisioterapista bravissima, e medici molto preparati. È molto utile pure partecipare alle attività dei gruppi di auto-aiuto. E poi parlare, non vergognarsi. Non è una colpa essere malati. In questi gruppi si parla liberamente. Serve moltissimo perché ci si scambia esperienze e consigli utili che sembrano banali, ma così banali non sono. Chiedere aiuto può essere faticoso, difficile da fare, magari per il timore di sembrare inopportuni, ma non è così».

Normalità, quindi. Nei limiti del possibile. E poi, «Prendersi tempo per sé stessi, continuare a fare le cose che piacciono. Io lo dico sempre a mio marito: voglio essere tua moglie, non la tua infermiera».

Normalità e fiducia in chi può dare una mano. «Quest’anno - spiega ancora Rita - grazie all’assistenza di “Parkinson Svizzera”, abbiamo ottenuto grandi e piccoli aiuti: dall’assegno per i grandi invalidi, all’autorizzazione al parcheggio disabili. Lo dico soprattutto a chi si trova adesso a dover affrontare la malattia: non siete soli. Ci sono persone e associazioni che possono darvi una mano. Non abbiate paura di rivolgervi a loro e di chiedere sostegno».