Voleva uccidere la famiglia? Sì, per l’accusa: chiesti tre anni

«Abbiamo vissuto vent’anni assieme, con due meravigliosi figli. L’ho amata, la amo anche adesso». Si è aperto oggi di fronte alla Corte delle assise criminali presieduta dal giudice Siro Quadri il processo a carico di un 48.enne italiano residente nel Luganese accusato di aver cercato di ave compiuto atti preparatori per sbarazzarsi di compagna e figli. Tanto almeno avrebbe dichiarato al Telefono Amico lo scorso maggio: «Voglio uccidere i figli e subito dopo suicidarmi come ultimo atto d’amore. Ho fatto testamento e ordinato una pistola e 100 proiettili che arriveranno molto presto». Non è però passato all’atto, forse perché forze dell’ordine lo hanno fermato prima, forse perché non l’avrebbe fatto mai (non vi sono prove che sia entrato in possesso dell’arma). Il processo si concentrerà soprattutto sul capire se effettivamente volesse compiere l’estremo gesto oppure se la sua fosse piuttosto una grottesca richiesta d’aiuto. L’imputato soffre di un grave disturbo bipolare e una perizia ha identificato una scemata imputabilità di grado medio e un alto rischio di recidiva. La sentenza è attesa per giovedì, quando parlerà anche la difesa dell’uomo. Intanto l’accusa, titolare dell’incarto è la procuratrice pubblica Margherita Lanzillo, ha chiesto una condanna a tre anni da scontare, rimettendosi alla Corte per quanto riguarda l’espulsione. È andato invece un passo oltre l’avvocato Paride De Stefani, patrocinatore dell’ex compagna, chiedendo che all’imputato sia comminato anche un trattamento stazionario: «Altrimenti il rischio che qualcosa andrà storto è troppo alto».
Processo alle intenzioni
La situazione, già non idilliaca, è peggiorata dopo che compagna e figli si sono allontanati dall’appartamento familiare lo scorso inverno e hanno ottenuto misure restrittive nei confronti dell’uomo, a cui sono imputati anche anni di violenze fisiche e psicologiche alla sua famiglia. Stando all’accusa, poche ore dopo l’udienza per decidere delle misure supercautelari, l’uomo ha scaricato il browser TOR per accedere al darkweb e ha cercato di acquistare una pistola. Idem qualche giorno dopo in un negozio di Lugano e poi ancora sul darkweb. Al contempo ha aperto un portafoglio di criptovalute per pagare l’arma, in modo da non essere rintracciabile. Il 48.enne, invece, afferma di non aver avuto intenzione di comprare l’arma, perché, se davvero avesse voluto, avrebbe avuto altre strade più facili per procurarsela. La sua era solo curiosità, si è giustificato. Inoltre, se davvero avesse voluto agire, non l’avrebbe detto al Telefono Amico. È dunque sul determinare le sue reali intenzioni, che si incentrerà il processo. Quanto alle accuse di aver malmenato figli e compagna, l’uomo - difeso dagli avvocati Chiara Villa e Davide Ceroni, ha smussato la ricostruzione, parlando di buffetti alla prole e negando recisamente di aver mai picchiato l’ex compagna.
Un insegnamento problematico
Il 48.enne è un uomo malato - il disturbo di cui soffre lo rende totalmente inabile al lavoro - e oggi in aula è emerso un rapporto complicato con gli affetti. In questo senso il momento più saliente ha probabilmente riguardato la sua fascinazione per un fatto di cronaca nera accaduto qualche anno fa nel Torinese, in cui un padre ha ucciso il proprio figlio e poi si è sparato. «Voleva raccontare a tutti i padri che sono in disperazione come ero io che lui è il Cristo dei padri disperati – ha detto l’imputato – e siccome s’è messo in croce, nessun altro deve più farlo. Per me è stato un monito, mi ha fatto capire quanto un padre ama un figlio, mi ha portato a mettermi in sicurezza. Andrò a Torino a mettergli dei fiori sulla tomba». Ma anche: «Lui è un Cristo moderno, io non ce l’ho fatta». In altre parole, non è stato chiaro quale insegnamento abbia tratto dalla tragedia italiana: l’ha raccontata con trasporto – a tratti con la voce rotta – e con quella che sembrava ammirazione in particolare quando ha sottolineato come quel padre, dopo aver ucciso il figlio, lo avesse abbracciato prima di togliersi a sua volta la vita.
Parola all’accusa
«L’imputato ha una percezione distorta dell’amore e della protezione che deve garantire - ha detto la pp Lanzillo in requisitoria. - In quell’abbraccio vede un atto d’amore, non uno di violenza irreparabile. Non dobbiamo minimizzare il suo dolore nel vedere la famiglia sgretolarsi, ma nessuna sofferenza giustifica atti che distruggono delle vite. Vi era il rischio di una possibile e tragica emulazione». Lanzillo ha sottolineato come gli intenti nefasti dell’uomo si manifestassero in momenti di forte stress e ha sostenuto che l’ultimo tentativo di procurarsi un’arma, il più concreto, sia avvenuto dopo un dialogo coi figli (a cui era stato impedito di avvicinarsi) al termine del quale sentiva di averli definitivamente perduti: «In inchiesta ha detto di sentire di non avere il controllo su quello che sarebbe accaduto nei giorni seguenti e che aveva paura di fare del male, specialmente ai suoi figli». Lanzillo ha chiesto che la condanna sia accompagnata da «un quadro terapeutico stretto e rigoroso» ma non ha chiesto che l’imputato venga espulso, ritenendo che una tale decisione potrebbe essere «un ostacolo insormontabile a una buona riuscita della cura».
L’avvocato De Stefani, come detto, ha invece chiesto una misura stazionaria: «La mia assistita non è mossa da desiderio di rivalsa verso l’ex compagna, ma dalla preoccupazione per la sua sicurezza e quella dei figli. In passato misure analoghe al trattamento ambulatoriale non hanno funzionato e non è sulla pelle dell’ex compagna e dei figli che ora si possono fare esperimenti psichiatrici. Bisogna andarci con i piedi piombo perché il prezzo da pagare a sottovalutare i rischi di una recidiva in questo caso è altissimo». L’intervento del legale dell’ex compagna è stato ascoltato con difficoltà dall’imputato, che verso la fine dello stesso non è più riuscito a trattenersi e lo ha interrotto, nervoso, definendo le sue parole «calunnie».