Toh, siamo diventati tutti straordinari

Conoscete l’effetto San Matteo? È il fenomeno per il quale i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, esemplificato nella parabola dei talenti nel Vangelo di San Matteo: ognuno per sé, insomma... Ne parla la filosofa Francesca Rigotti nel suo ultimo saggio (L’era del singolo, ed Einaudi) per indicare che proprio il «chacun pour soi» potrebbe essere lo slogan del singolarismo. Che non è l’essere «single», ma tutt’altra cosa, come ci spiega l’autrice (nella foto sotto).

Francesca Rigotti, sulla copertina del suo ultimo saggio leggo che «essere individui non basta più». Cosa vuol dire?
«Vuol dire che a un certo punto della storia dell’umanità siamo diventati individui. È un processo che è iniziato con la modernità, all’uscita dal Medioevo, in cui eravamo i membri di una comunità. E piano piano siamo diventati – come dire? – a tutto tondo».
Cioè?
«Cioè non eravamo più figli, padri, mariti, mogli... Siamo diventati noi, con un nome preciso, un’individuazione, un luogo e anche – sebbene ancora molto primitivi nel Cinquecento – con dei diritti particolari, individuali. Poi è avvenuto il passo successivo e siamo diventati singoli. Una parte dell’umanità è passata ad una fase che qualcuno ha definito di singolarismo. L’espressione non è mia, l’ho presa sia dal gergo dell’intelligenza artificiale, sia dalla sociologia».
Quali sono le caratteristiche della società dei singoli?
«Anzitutto va detto che non mi riferisco alla società dei “single”, dei non sposati, di coloro che se ne stanno da soli. Non bisogna neppure immaginare degli individui ognuno dei quali sta e fa per sé. Il singolarismo è il fenomeno per cui ogni persona pensa di sé e della propria prole, di essere speciale. Come cantava Battiato: perché sei un essere speciale e io avrò cura di te...».


Che cosa significa? Cosa cambia rispetto all’idea di individuo?
«Cambia che le cose non vengono fatte per la tua categoria, per il tuo gruppo, ma per te. Il nuovo smartphone, il nuovo tablet non è in generale per chi lo compra, è per te. Tutto viene personalizzato. La medicina non è più l’aspirina per tutti, è legata al tuo genoma, alle tue caratteristiche specifiche. Un elemento che mette bene in chiaro il concetto è la scuola».
Perché?
«Perché la scuola non è più per tutti i bambini che ci vanno per imparare a leggere e a scrivere, ma è per il tuo figlio talentuoso o talentato per le sue specifiche capacità, per il suo curriculum, che è un curriculum costruito su di lui o su di lei».
Non siamo più tutti uguali? Rivendichiamo di essere tutti diversi?
«Diciamo che la singolarità succede al trionfo della modernità iniziato alla fine del Settecento e conclusosi con le Trente glorieuses, le annate tra il 1945 e il 1975, che puntavano sull’uguaglianza: istruzione per tutti, televisione per tutti, lavatrice per tutti. Se vediamo le case delle persone più avanzate, nella loro singolarità sono assolutamente personali. Che non vuol dire originali. Tu non chiami più l’architetto, ma metti insieme i tuoi elementi per avere la tua dimensione unica ed essenziale. Questo processo si vede molto bene, per esempio, nella borghesia più avanzata della classe accademica. Prendiamo un altro fenomeno: le vacanze. Una volta si andava tutti a Rimini, oggi l’intellettuale va dove impara qualcosa e ci trascina tutta la famiglia. Va al museo, mentre chi – con un’espressione orribile – è rimasto indietro, i loser come dicono gli americani, vanno a Disneyland».
Nel suo libro lei parla anche dei nomi dati ai bambini.
«Sì, sono nomi che non vengono solo dalle star di Hollywood o dai calciatori. Ci sono nomi colti, brillanti, come Violante, Orso, eccetera».
È la fuga dall’omologazione?
«È la fuga dall’omologazione, sì. Ma il fatto grave è che si tratta anche di una fuga dall’uguaglianza. È grave dal punto di vista politico e sociale. Ciò che preoccupa è la crisi dell’eguaglianza, che già stava perdendo pezzi da tutte le parti».


L’idea di società democratica è messa in pericolo?
«È messa in pericolo anche da questa tendenza, perché noi intendiamo la società democratica come una società che tende all’uguaglianza perlomeno sociale e in parte economica. Perché in una buona società, come era quella tedesca negli anni Novanta, ad esempio, c’è una diversità di salario tra il più basso e il più alto di sette/otto volte, che mi pare accettabile. Settecento volte non è accettabile, crea un malessere terribile».
Che cos’è la singolarità tecnologica, a cui lei dedica un capitolo?
«Anzitutto la tecnologia ha preso il vocabolo che nasceva nell’ambito filosofico medievale, il fatto che Dio è l’essere singolare e unico per eccellenza. Il vocabolo è stato ripreso nel gergo dell’intelligenza artificiale che giunge a sostenere che il punto di singolarità sarà quando l’intelligenza umana e quella artificiale si incontreranno e la seconda supererà la prima e potrà andare avanti per conto suo. I teorici di questa visione collocano questo momento tra una ventina d’anni. Altri sostengono che non succederà mai».
Dov’è più diffuso il singolarismo?
«Soprattutto nella classe media degli accademici e dei professionisti: architetti, ingegneri, persone più sensibili al singolarismo, per altro senza accorgersene, senza averne consapevolezza. E il ruolo della filosofia è proprio quello di dare consapevolezza. Anche osservando bene la vita quotidiana. Vedo, ad esempio, alcuni bambini – e lo vedo anche da nonna, anche se non mi riferisco ai mei nipoti – che vengono allevati come opere d’arte: a due anni imparano a leggere le letterine, i genitori si ingegnano a trovare attività consone alla loro creatività... Ma gli esempi potrebbero essere molti altri».
Com’è possibile essere «singoli» nel senso che lei intende nella rete della società che invece ci vuole massa?
«Bisogna dire che i contenuti relazionali forti, in questa rete, scompaiono. Parlo della rete nella rete, quella in cui non ci si guarda più in faccia e non si hanno contatti reali. È sì, una forma di relazione, ma non è la relazione verbale, la relazione che ti permette di risolvere gli equivoci, tutti quei fraintendimenti che si creano quando non si parla faccia a faccia, o almeno al telefono, con domanda e risposta immediata. Nella rete siamo ancora più singoli, altro che comunità sociale».
Antidoti? L’antico mutuo soccorso?
«È molto difficile. Ormai abbiamo adottato il linguaggio americano che separa vincenti e perdenti, winner e loser. Il tutto accompagnato da una falsa meritocrazia, l’idea che se sono già nato privilegiato, è merito mio. Se invece nasco nel Burkina Faso? L’idea è di essere i vincenti per le proprie forze e capacità singolari e individuali. Dimenticando ad esempio il privilegio sociale».
Senza cadere nel moralismo: ma questo fenomeno non ci spinge verso un egoismo generalizzato?
«Sì, anche se io lo chiamerei piuttosto narcisismo generalizzato. Esistono molti testi e molte critiche alla cosiddetta egolatria, all’egoismo esasperato (alcuni li cito nel mio libro). Fanno un discorso di critica generale: abbiamo dimenticato il “noi”, come dice anche papa Francesco, e richiamiamo soltanto l’“io”. Questo, però, è un fenomeno collaterale. Sì, c’è un’attenzione estrema all’io, ma non dimentichiamo che dire “io” è una cosa straordinaria. Quando un bambino dice “io” fa una conquista, mostra la capacità di staccarsi dalla mamma e di identificarsi».
Mi sta dicendo che il singolarismo è una deriva negativa di qualcosa di positivo?
«Sì. La fuga dalla massificazione è positiva, il narcisismo no. Già cinquant’anni fa Pasolini non amava l’omogeneità, ma allo stesso tempo era un paladino dell’uguaglianza».


Non c’è un errore antropologico in questa visione: nel concepirsi fini a se stessi, necessari e sufficienti a se stessi, senza intrecciarsi con gli altri e senza riconoscere i propri limiti strutturali?
«È vero che è una deriva antropologica. Ed è forse quasi connaturato al destino dell’individuo. Il valore positivo è un percorso alternativo e diverso al passato, quando il diritto era della tribù o del pater familias, e non tuo come individuo e come persona. Questo è il valore positivo da non perdere. Ma quello che si perde è l’eguaglianza, la solidarietà e la comunità».
Parliamo di singolarità e morte.
«Viviamo in una società non immortale, ma a-mortale. Noi pensiamo di non morire. Questa società singolarista non accetta la morte. Ricorre alle tecnologie, ma soprattutto rifiuta il pensiero. Ci inonda di creme di bellezza anti-age. Non si accetta la propria limitatezza. Il dogma della pubblicità è “l’illimitato”. Ma non vuol dire niente, come umani l’illimitato non ci appartiene».
È per questo che il singolo coltiva soprattutto il proprio benessere e la propria felicità?
«La nostra società dice soprattutto una cosa che non è così vera: dice che la felicità è nelle tue mani. C’è una lode sperticata della resilienza, che naturalmente è una realtà bellissima in cui credo, la capacità di cadere e di rialzarsi. Ma se n’è fatto un mito, come se nel caso tu non fossi in grado di rialzarti dalla tua disgrazia, allora è colpa tua. Non mi piace l’esaltazione di questo presunto merito che il singolarista si attribuisce a priori».
In conclusione?
«È importante guardarsi intorno e osservare anche le proprie azioni e i propri comportamenti per evitare di cadere in queste derive. Se sei una persona che idolatra l’ultimo modello di smartphone, se non puoi fare a meno della Tesla, forse sei singolarista».
Ci sono le basi per una nuova lotta di classe tra loser e winner?
«Credo di sì, ma su presupposti nuovi perché non esiste più o esiste molto meno una classe operaia. E poi se la lotta di classe viene gestita dalle destre sovraniste c’è qualcosa che non funziona, anche se sono molto abili nel recepire lo scontento dei loser».
