Tra Israele e Libano tregua alla prova dei fatti
Sessanta giorni per capire, per costruire, per vedere la fine del tunnel. I prossimi due mesi saranno determinanti per chiarire se e come il cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele abbia non solo avuto effetto, ma possa anche portare a una pace definitiva con il Libano. Che potrà avvenire solo quando si discuterà l’annoso problema dei confini e in Libano ci sarà un governo e istituzioni degni di questo nome, sganciati dai gruppi ritenuti terroristi.
Al di là di tutto, l’accordo raggiunto ricalca quello della risoluzione 1701 delle Nazioni Unite, entrato in vigore nel 2006. Se in questi diciotto anni non si è riusciti a portare la pace, ma anzi si è assistito dal 7 ottobre dell’anno scorso all’attacco quotidiano di Hezbollah contro il nord e il centro d’Israele - a ritmi tra i cento e i duecento razzi giornalieri - e all’ingresso delle truppe con la Stella di Davide sul territorio libanese all’inizio dello scorso ottobre, non si capisce perché ora lo stesso accordo dovrebbe funzionare.
Questa volta, a garantire i termini dell’accordo (Hezbollah si ritira a nord del fiume Litani, il sud viene smilitarizzato), ci saranno Francia e Stati Uniti, che hanno promesso anche aiuti alle truppe regolari libanesi. Cinquemila soldati che dovrebbero prendere, a mano a mano, il posto di Hezbollah e dell’esercito israeliano dalle zone del sud. Saranno loro a controllare che il partito di Dio si disarmi. Come pure l’Unifil, che torna a fare il proprio lavoro. Un lavoro molto criticato, da tanti, visto che Hezbollah in questi diciotto anni ha potuto fare il bello e il cattivo tempo al sud del Libano, dove ha creato basi di lancio, di comando e tunnel, e dove ha controllato il territorio. Certo, le regole d’ingaggio dei caschi blu non permettono altro se non le segnalazioni. Forse, con regole diverse, non avremmo avuto sessantamila israeliani al nord obbligati a lasciare le loro case e, dall’altra parte, oltre tremila vittime, distruzione di interi quartieri sia nelle aree roccaforti di Hezbollah (il sud di Beirut, il sud del Paese, Tiro e l’est del Libano con la valle della Bekaa), sia in altre parti della capitale e del Paese.
Partito di Dio ancora vivo
Tutti avocano la vittoria dalla propria parte. Hezbollah, che sin dallo scoppio - il 17 e 18 settembre - dei cercapersone e dei walkie talkie degli appartenenti al partito di Dio, poi con l’uccisione dei suoi leader (Nasrallah su tutti il 27 settembre) e con la distruzione di molte sue basi a Beirut e nel sud, ha patito non poco, essendo stata di fatto distrutta nella gestione organizzativa, nei suoi gangli. Questo non significa che sia sconfitta. La messe di razzi che fino a martedì sono stati lanciati su Israele lo dimostra. L’approvvigionamento di armi dall’Iran, qui attraverso la Siria, funziona meglio e in maniera più continua che rispetto all’approvvigionamento a Gaza.
La fila di gente che oggi si è vista ritornare verso i quartieri del sud di Beirut, soprattutto Dahiyeh, o verso l’est e il sud, brandendo e sventolando bandiere di Hezbollah e immagini del defunto Nasrallah, oppure l’annuncio che nei prossimi giorni il gruppo sciita terrà pubblicamente il funerale dell’ex segretario generale, dimostrano che il partito di Dio ha ancora una base notevole, oltre che molte armi. E di questo bisogna tenere conto, anche se le pressioni del governo e dei civili libanesi, ma anche le armi israeliane, hanno fatto fare un passo indietro a Hebzollah, fino ad accettare le condizioni imposte da Israele per il cessate il fuoco. Come quella di avere mani libere di imbracciare le armi se si dovesse sentire di nuovo minacciato, come è successo oggi contro quattro persone al sud in pieno cessate il fuoco.
La posizione di Hamas
Pure Hamas grida alla vittoria. Il portavoce a Beirut, Osama Hamdan, ha spiegato che è stata la vittoria della resistenza ad aver spinto Israele al cessate il fuoco. In un comunicato, Hamas si dichiara pronta ai colloqui per una tregua a Gaza, ma sempre alle sue condizioni. Giusto un anno fa, aveva accettato la tregua che portò in una settimana il rilascio di ostaggi e lo scambio con prigionieri palestinesi. Dopo una settimana, senza motivazioni, Hamas interruppe il rilascio degli ostaggi e ripartì con il conflitto, lanciando razzi contro Israele. Da allora non ha mai accettato alcuna proposta. Quando lo ha fatto, era per cambiarla. I termini sono sempre gli stessi, per loro, ovvero «un cessate il fuoco, il ritiro delle forze di occupazione, il ritorno degli sfollati e il raggiungimento di un accordo reale e completo sullo scambio di prigionieri», come si legge nel loro comunicato. Dopo quanto accaduto l’anno scorso, Israele non si fida e non vuole uscire prima che siano liberati gli ostaggi. Dopotutto, anche in Libano l’esercito si è preso due mesi per abbandonare. Ma a Gaza non ci sono governo o civili che possano far pressione sul gruppo. E Hamas sembra non interessata alla loro sorte, visto che oltre alle bombe israeliane - che non cessano di cadere -, i civili in questi giorni patiscono la furia degli elementi, con migliaia di tende spazzate via.
I dubbi degli israeliani
Neanche gli israeliani cantano vittoria per il cessate il fuoco. I familiari degli ostaggi avrebbero voluto legare la fine delle ostilità in Libano con il rilascio dei loro cari da Gaza. I cittadini del nord non sono ancora tornati a casa e non sapranno quando lo faranno, visto che la minaccia di Hezbollah è ancora lì. Anche alcuni militari sono scontenti, così come esponenti del governo. Ma da qualche parte si doveva pur cominciare. Anche se Netanyahu nel suo discorso, martedì sera, ha detto che il cessate il fuoco darà la possibilità di concentrarsi sugli altri fronti (Gaza in particolare) e ha espressamente citato l’Iran. Con il quale, un conflitto è sempre dietro l’angolo.