L'intervista

«Tra le prime parole di Leone XIV, i semi del suo programma»

Michele Colombo è professore di Linguistica all'Università di Stoccolma – Ha studiato i rapporti tra la Chiesa e la lingua italiana – Lo interroghiamo sul primo discorso del nuovo Papa
© EPA/FABIO FRUSTACI
Paolo Galli
09.05.2025 06:00

Le prime parole di un Papa rappresentano un’impronta sull’anima dei fedeli. Alcuni discorsi hanno fatto la storia della nostra collettività. Ne parliamo con l’esperto Michele Colombo, professore a Stoccolma, dopo due decenni vissuti alla Cattolica di Milano. Si è già occupato del rapporto tra la Chiesa e la lingua italiana.

Professore, quale aspetto l’ha colpita maggiormente del discorso di papa Leone XIV?
«Be’, innanzitutto vanno registrate alcune novità rispetto ai precedenti pontefici. In primo luogo, è stato il primo a presentarsi con un discorso scritto, un discorso molto più strutturato. Poi ha fatto riferimento alla sua appartenenza all’Ordine di Sant’Agostino. Ha detto espressamente di essere “figlio di Sant’Agostino”. Francesco non aveva fatto altrettanto rispetto alla sua appartenenza all’Ordine dei gesuiti. Terza novità: ha parlato anche in spagnolo. Nessun altro Papa aveva usato una lingua diversa dall’italiano. Gli elementi invece di continuità sono l’aver nominato il proprio predecessore e il riferimento alla Madonna. Mi pare poi ci siano anche altri elementi degni di nota. La centralità della parola “pace” non è sfuggita a nessuno. L’ha nominata subito, per poi ripeterla più volte. Ha utilizzato anche l’espressione “costruire i ponti”, che si riallaccia al pontificato di Francesco e al suo messaggio. Come Bergoglio, anche Prevost ha parlato della Chiesa di Roma. E poi è emerso anche l’elemento della missione, un tema che - ho l’impressione - tornerà spesso».

Due gli accenni a Cristo.
«Sì, il cristocentrismo mi è parso evidente. “La pace sia con tutti voi. Questo è il primo saluto del Cristo risorto, il buon Pastore. Vorrei che la pace raggiungesse le vostre famiglie, tutti i popoli, tutta la terra. La pace sia con voi. Una pace disarmata, disarmante, umile. Dio ci ama tutti, incondizionatamente”. E poi ancora: “Siamo discepoli di Cristo, Cristo ci precede. Il mondo ha bisogno della sua luce”. Un riferimento anche al “Non abbiate paura” di Wojtyla».

Quale può essere, qual è, anzi, l’impatto delle prime parole di un Papa sui fedeli?
«Un impatto molto forte, al punto che, a distanza di anni, ancora vengono ricordate, entrano nella nostra tradizione. Basti pensare al celebre “Se mi sbaglio, mi corrigerete” di papa Giovanni Paolo II. Oppure a Benedetto XVI, presentatosi subito con parole del Vangelo come “un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”, o ancora al familiare “Fratelli e sorelle buonasera” di Francesco. Poi queste parole non possono essere prese come programmi di Governo, non hanno lo stesso peso di un’enciclica o di una lettera apostolica. Però, dal punto di vista mediatico e della memoria collettiva, si imprimono nelle menti e nei cuori della gente, così come si imprime il primo incontro con una persona con cui poi passeremo il resto della nostra vita comune».

Quanto possiamo già capire di una persona nelle sue prime parole da Papa? In fondo, quella commozione dichiarata da Roncalli era una premessa da “Papa buono” o le origini dalla “fine del mondo” di Francesco mostravano una propensione a interessarsi agli ultimi. Sono veri indizi, o lo sono solo col senno del poi?
«In alcuni casi ci sono indizi veri e profondi. Spesso ci troviamo, però, di fronte a tratti comuni. Limitandoci agli ultimi Papi, compreso Leone XIV, tutti hanno iniziato ricordando il proprio predecessore, quindi spesso affermano - comprensibilmente - la propria indegnità all’incarico, e infine, come lo stesso Prevost, affidano il proprio compito all’intercessione della Madonna. Giovanni Paolo II e Francesco hanno sottolineato entrambi la propria provenienza straniera, “da un paese lontano” e “dalla fine del mondo”. Lo stesso Francesco, come Benedetto XVI, ha chiesto ai fedeli che pregassero per lui. Abbiamo talvolta registrato anche messaggi contrastanti rispetto alla vera essenza dei Papi. Giovanni Paolo II ha mostrato titubanza linguistica, quando poi si dimostrò straordinario poliglotta: parlava undici lingue. Lo stesso Ratzinger, che si era presentato come «semplice e umile lavoratore», ha poi preso una decisione, quella delle dimissioni, che ha cambiato la storia del Papato. Anche Francesco aveva sottolineato con veemenza il proprio ruolo di vescovo di Roma, anche se poi ha dato una fortissima impronta internazionale al collegio cardinalizio».

Basti pensare a Wojtyla, il quale parlò apertamente della paura di diventare Papa. Disse: “Ho avuto paura nel ricevere questa nomina, ma l’ho fatto nello spirito dell’ubbidienza verso Nostro Signore Gesù Cristo e nella fiducia totale verso la sua Madre, la Madonna Santissima”

Qua e là, specie in passato, sono emersi anche tratti molto personali dei nuovi Papi.
«È così. Basti pensare a Wojtyla, il quale parlò apertamente della paura di diventare Papa. Disse: “Ho avuto paura nel ricevere questa nomina, ma l’ho fatto nello spirito dell’ubbidienza verso Nostro Signore Gesù Cristo e nella fiducia totale verso la sua Madre, la Madonna Santissima”. L’emozione di Leone XIV si è vista nel linguaggio non verbale».

Dava per scontati i riferimenti all’umiltà, all’indegnità di fronte all’incarico. Ripenso a Papa Luciani: “Mi sono trovato nella fossa dei leoni”.
«L’aspetto dell’umiltà torna spesso, sì. È un tratto di profonda umanità e di realismo. L’umiltà è dire: io sono nulla e tu, Dio, sei tutto. Citando il recente film Conclave, d’altronde, “nessuno sano di mente vorrebbe quel trono”. Papa Montini definì sé stesso “un umile e fedele servitore della Chiesa universale”. Ma è un’umiltà di chi, comunque, non si tira indietro e accetta il proprio compito e le proprie responsabilità».

E poi c’è il senso di vicinanza, di empatia, generato dai messaggi più semplici, talvolta anche dalle gaffe. L’emozione, non nascosta, di Leone XIV...
«Già il fatto di accettare di parlare subito dopo l’elezione, pur sopraffatti dalle emozioni, senza neppure il tempo di organizzare i propri sentimenti, i propri pensieri, dimostra un’apertura significativa ai fedeli, una volontà di essere subito tra la gente, nella ricerca di un’empatia immediata».

Prevost, lo dicevamo, è stato il primo a leggere un discorso scritto. Come possiamo interpretare questo aspetto?
«Per quanto ne so, il pontefice parla un ottimo italiano. Non è sicuramente frutto di un timore, quindi, ma certo è lecito chiedersi quando lo abbia scritto. Perché alcune parti sono sembrate davvero molto pensate e le parole pesate con cura. Per una volta, rispetto al passato, questo mi è sembrato un discorso molto più programmatico. Prevost ha esposto un programma di quello che sarà il suo pontificato».