Turchia, accenni di cambiamento tra le incognite

La Turchia di Recep Tayyip Erdogan sta cambiando. E questa potrebbe essere anche una buona notizia. Il problema è a quale Mezzaluna deciderà di dare vita il popolo turco alle elezioni parlamentari e presidenziali del 2028. Manca ancora parecchio tempo, e la prima cosa da vedere sarà se Recep Tayyip Erdogan deciderà di ripresentarsi o se, come pare, si ritirerà dopo oltre 25 anni alla guida del Paese. Quel che è certo, è che la Mezzaluna sembra destinata a diventare un Paese meno «monocolore», dove, cioè, un partito fa un pieno tale che prende tutto. Anche questa, potrebbe essere una buona notizia.
La netta vittoria del Chp
Sul cammino della Turchia verso una rinnovata, e questa volta si spera reale, democratizzazione, però, ci sono ancora molte incognite. Così tante che il risultato delle elezioni amministrative di domenica deve essere accompagnato non solo da entusiasmo e curiosità, ma anche da prudenza. Certo i numeri parlano chiaro. L’Akp, il Partito islamico moderato per la Giustizia e lo sviluppo, fondato da Erdogan nel 2000, non è mai andato così male e per la prima volta da 22 anni a questa parte è stato addirittura superato dal Chp - il partito repubblicano del popolo, di orientamento laico, ma anche estremamente nazionalista -, che ha conquistato un ottimo 37,7% dei consensi totali. L’Akp è fermo al 34,5%. Una percentuale quasi imbarazzante, se paragonata a quelle degli anni precedenti. I repubblicani hanno mantenuto il controllo delle principali città del Paese, migliorando ulteriormente il loro risultato. Ekrem Imamoglu, il sindaco uscente di Istanbul e per molti il prossimo candidato del Chp alla presidenza della Repubblica, ha ottenuto il 51,14% dei consensi. Murat Kurum, candidato dell’Akp ed ex ministro dell’energia, molto stimato da Erdogan, si è fermato al 39,59%. Ad Ankara, poi, è stato un plebiscito, con il sindaco uscente, Mansur Yavas, che ha dato quasi 30 punti al candidato del presidente. I repubblicani sono scesi in piazza fino a tarda notte a festeggiare e non si può certo dare loro torto. L’opposizione ha vinto dove, fino a qualche anno fa, il controllo da parte di un partito diverso da quello di Erdogan non era nemmeno ipotizzabile. Il Chp ha sfondato in Anatolia Occidentale a Manisa, Balikesir, persino nella religiosa Bursa e, in Anatolia centrale, ha conquistato Sivas, altra roccaforte degli islamici al governo.
Tante motivazioni
Impossibile trovare una sola motivazione per una tale affermazione e, senza voler sminuire l’impegno profuso dal Chp, va detto che oltre al loro merito, bisogna guardare il demerito dall’altra parte. Il popolo turco, infatti, ha votato nel bel mezzo di una crisi economica che sta indebolendo progressivamente il ceto medio, con un’inflazione al 70%, colpa anche della politica sui tassi di interesse «non ortodossa» che il presidente ha imposto per anni alla Banca centrale. A questo aspetto, c’è poi da aggiungere che l’Akp, nel corso degli anni, è stato svuotato di alcune delle sue figure politiche più importanti proprio da Erdogan, che lo ha di fatto commissariato per non temere opposizioni interne. La conseguenza è stata anche perdere sacche di voti nei territori dove questi esponenti erano particolarmente influenti, e si parla di milioni di preferenze. In ultimo, il cambio al vertice del Chp, con l’uscita dell’anziano Kemal Kilicdaroglu e l’arrivo di Özgür Özel, ha portato una ventata di aria fresca che ha sicuramente invogliato molti a votarli. Bisogna però vedere quanto dura.
Il colpaccio di Erbakan
Nella Turchia di domani, un posto sempre più importante lo avranno i curdi. E questa, per tutti i partiti del futuro arco costituzionale, non è una buona notizia. Il partito filo curdo DEM ha vinto con percentuali plebiscitarie in quasi tutto il sud-est del Paese, tranne Bitlis e Siirt. Consensi che spesso hanno superato il 60% e che fanno capire come la minoranza sia determinata nel volere una forza politica che la rappresenti a tutti i livelli. L’Akp, poi, deve stare attento non solo ai repubblicani, ma anche ai partiti sulla carta ancora più conservatori. L’Mhp, il Partito nazionalista, ha conquistato otto province, l’Iyi Parti nato da una costola dell’Mhp, una. C’è poi il vero exploit di queste amministrative, probabilmente il risultato che a Erdogan ha dato più fastidio dopo quello del Chp. Il Yeniden Refah Partisi, il Nuovo Partito del Benessere, ha conquistato ben due province, raddoppiando in pochi mesi i suoi consensi rispetto a quelli delle elezioni presidenziali dello scorso anno. La formazione è stata fondata nel 2017 da Fatih Erbakan, figlio di quel Necmettin Erbakan che chi segue l’Islam politico nel mediterraneo conosce fin troppo bene. Membro dei Fratelli Musulmani, è stato il padre politico e morale di Erdogan. Fatih ha chiamato il Partito come quello che spadroneggiava fra il 1983 e il 1998, prima che la Corte Costituzionale lo chiudesse per attività contrarie alla costituzione laica. Ora si è portato a casa Yozgat e Sanliurfa, due fra le regioni più islamo-conservatrici della Mezzaluna.
Il leader rimane lui
«Il vero vincitore di queste elezioni è il popolo turco con la sua democrazia». Ha commentato Erdogan nel suo discorso dopo i risultati elettorali. Stanco, visibilmente provato, è troppo intelligente per non aver capito già da prima che le elezioni sarebbero andate così. Anche per questo, per la prima volta, ha parlato per meno di trenta minuti e soprattutto non ha incolpato nessuno per il mancato raggiungimento del risultato. Per quanto questa sia anche una sua sconfitta, rimane il padrone assoluto del Paese fino al 2028. E, soprattutto, chi ha vinto le amministrative, deve dimostrare di saper vincere anche le politiche e le presidenziali e dare luogo ad alleanze che durino nel tempo. La Turchia ha una lunga storia di patti politici finiti prima del tempo. Uno dei motivi per cui Erdogan è durato 22 anni è che, governando da solo per molti anni, ha garantito quella stabilità e quella prosperità che per i turchi erano un miraggio e che chi verrà dopo di lui dovrà saper assicurare.