Tutti d'accordo tranne Mosca: «Richieste russe inaccettabili»

«Meno di due ore». Come una partita di calcio, una cena di tre portate, un film. Eppure oggi, a Istanbul, si poteva iniziare a lavorare alla fine di una guerra che dura da oltre tre anni. E due ore non bastano per quello, no. Non si ottiene nulla, in due ore, nemmeno - anzi, men che meno - con ventisei funzionari seduti allo stesso tavolo. Quelle bandiere alle spalle del ministro degli esteri turco Hakan Fidan erano però un buon segnale, così come le parole del padrone di casa. Due bandiere ucraine, due bandiere turche, due bandiere russe. «Oggi ci sono due strade: una porta alla pace, l’altra causerà ulteriore distruzione e perdite di vite umane. Entrambe le parti sceglieranno quale strada intraprendere», ha detto il padrone di casa alle due delegazioni. Istanbul ci ha provato, non si può certo dire il contrario. Ma al termine di quelle due ore, il risultato è stato scoraggiante.
I colloqui di Tirana
La questione ucraina, durante il pomeriggio, si è poi spostata in Albania. A Tirana, è infatti avvenuto un nuovo incontro tra Zelensky e i leader europei Emmanuel Macron, Friedrich Merz, Keir Starmer e Donald Tusk. Assieme, hanno chiamato al telefono Donald Trump. Poi Zelensky ha parlato di una Ucraina «pronta a compiere i passi più rapidi possibili per raggiungere una vera pace». E poi: «Se i russi rifiutano un cessate il fuoco completo e incondizionato e la fine delle uccisioni, devono seguire sanzioni severe. La pressione sulla Russia deve essere mantenuta finché la Russia non sarà pronta a porre fine alla guerra». Una posizione, quella di Zelensky, poi ribadita anche dai vari colleghi. Il premier britannico Starmer, per esempio, ha definito «inaccettabili» le richieste russe, quindi ha parlato di un «allineamento» sulla risposta da dare al Cremlino.
Controparte «senza autorità»
«Inaccettabili» è l’aggettivo utilizzato anche da Kiev. A Istanbul, la delegazione russa avrebbe avanzato, per l’appunto, «richieste inaccettabili», a partire dal ritiro delle truppe ucraine dai propri territori - i quattro oblast giudicati «annessi» da Vladimir Putin, ovvero Zaporizhzhia, Kherson, Lugansk e Donetsk - quale premessa per il cessate il fuoco di un mese richiesto da Zelensky. Una fonte dell’ufficio presidenziale ucraino ha rivelato che la delegazione di Kiev ha avuto l’impressione che la controparte «non avesse alcuna reale autorità». E quindi, le persone coinvolte dal Cremlino «ora devono tornare a Mosca solo per capire che cosa dire in risposta a ciò che hanno sentito a Istanbul». Già, ma che cosa hanno sentito? In sostanza risulta che l’Ucraina abbia offerto e chiesto un cessate il fuoco immediato, uno scambio di prigionieri senza vincoli e la possibilità di un incontro faccia a faccia tra presidenti, quindi tra Zelensky e Putin. Una proposta, quella di Kiev, già nota al Cremlino. Ma Putin, sin qui, l’ha sempre sminuita. «Chi perde, non può dettare condizioni», aveva già avuto modo di sottolineare in settimana. Insomma, non sembra esserci, da parte di Mosca, l’intenzione di ascoltare la controparte. Allo stesso modo, l’Ucraina non intende cedere i propri territori. «Violerebbe la nostra Costituzione».
La dialettica ucraina
L’unico risultato concreto - al di là di una superficiale intesa in vista di un futuro nuovo incontro - è stato un accordo per uno scambio di prigionieri tra le due parti in guerra. Mille ucraini potranno tornare in patria, e lo stesso faranno mille russi. La data dello scambio è nota ma, per ora, non è stata comunicata. Va detto che gli scambi di prigionieri tra i due Paesi avvengono regolarmente. L’ultimo momento simile risale allo scorso 6 maggio, quando erano stati liberati 205 soldati per parte. Dovesse essere davvero realizzato questo nuovo scambio, sarebbe comunque il più vasto dall’inizio della guerra nel febbraio del 2022. È un risultato, già, ma è chiaro che le premesse erano altre. E infatti Zelensky lo ha poi sottolineato in ogni suo successivo intervento e in ogni suo incontro. A Tirana si è seduto anche allo stesso tavolo dei vertici dell’Unione europea, Antonio Costa, presidente del Consiglio, e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione. Da lì l’invito: «La pressione sulla Russia deve aumentare se non accetta un cessate il fuoco completo e incondizionato. Sono quindi grato per la preparazione del 17. pacchetto di sanzioni. Ci aspettiamo che colpisca tutto ciò che finanzia la macchina da guerra russa: banche, petrolio, energia, metallurgia. È stata prestata particolare attenzione al nostro percorso verso l’UE, alla possibilità di aprire rapidamente tavoli negoziali e alla cooperazione commerciale. Grazie per il sostegno all’Ucraina e per averci aiutato ad avvicinarci a una pace giusta». Le stesse armi dialettiche sono state utilizzate anche rispetto a Washington. «Il presidente Trump vuole porre fine a questa guerra. Dobbiamo continuare a collaborare strettamente con lui e mantenere il massimo coordinamento possibile. Anche il sostegno statunitense a lungo termine è essenziale. È necessario un sostegno americano. È importante che lavoriamo tutti insieme, a ogni livello, per raggiungere questo obiettivo». A Istanbul, si è tenuto anche un incontro tra la stessa delegazione ucraina e i funzionari americani, guidati dal segretario di Stato Marco Rubio. Ribadite le posizioni.
Una vittoria dello Zar?
Molti osservatori e molte testate, compreso il New York Times, hanno dipinto questo vertice come «una vittoria tattica per Putin, che è riuscito ad avviare i colloqui senza prima accettare quel cessate il fuoco sul campo di battaglia, che l’Ucraina e i suoi sostenitori avevano chiesto come precondizione per i negoziati». Un vertice, quello odierno, che si è sgonfiato con il passare dei giorni e poi delle ore. Dapprima si era parlato di un possibile colloquio ai massimi livelli, con Donald Trump presente, poi anche il presidente americano lo ha derubricato. Il succo: «Non succede nulla di significativo finché non ci sarà un incontro diretto tra me e Putin». Trump, rientrando da Abu Dhabi, ha detto: «Capisco perché Putin non sia andato a Istanbul, ma dobbiamo trovare una soluzione e lo faremo». Presto almeno un contatto telefonico, «è arrivato il momento». Senza fretta, perché «un vertice del genere deve essere studiato e deve essere produttivo, preceduto da negoziati, consultazioni, una intensa preparazione».
L'offerta del Vaticano
«Chi entra Papa, esce cardinale». È un vecchio ritornello, che si sposa perfettamente, però, con Monsignor Pietro Parolin. Il cardinale vicentino, segretario di Stato della Santa Sede, oggi si è espresso, a margine di un evento sull’Ucraina alla Gregoriana - “Toward a Theology of Hope for and from Ukraine” -, in merito ai negoziati diretti in Turchia. «Speriamo sempre che ci siano spiragli di pace. Siamo contenti che finalmente ci sia la possibilità di un incontro diretto. Speriamo che si sciolgano i nodi esistenti e che si possa avviare davvero un percorso di pace». Secondo lo stesso cardinale Parolin, è però «prematuro» esprimersi sul futuro di questa guerra, se non sperando che sia «un punto di partenza», almeno quello. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, negli scorsi giorni, aveva ipotizzato un incontro con papa Leone XIV. Aveva detto: «Probabilmente domenica, se funziona. Ma non sappiamo ancora come finirà questa settimana». L’idea di Zelensky era di presenziare domenica alla messa inaugurale di papa Prevost in Piazza San Pietro, tra altri leader stranieri. Tra i due, comunque, c’è già stata una telefonata, lunedì, nella quale il presidente ucraino ha invitato a Kiev il pontefice. Ma una visita nel Paese aggredito dalla Russia è considerata «prematura», almeno secondo lo stesso Parolin. «Il Papa rinnoverà, come ha già fatto più volte dall’inizio del suo pontificato, l’appello per la fine della guerra. Noi rimaniamo sempre disponibili a offrire anche uno spazio. Parlare di mediazione è eccessivo, ma perlomeno di buoni uffici, di facilitazione dell’incontro». Al contempo, il Vaticano non vuole neppure rischiare di «interferire su altre iniziative in corso». Della serie: noi ci siamo, se vorrete. Perché la posizione della Santa Sede «cerca di avvicinare le parti» e non vuole «creare ulteriori divisioni». Ricordiamo il discorso inaugurale di papa Leone XIV: nominò nove volte la parola «pace».