Un viaggio in mezzo al gelo, avvolti dal calore del Natale

Ieri è iniziato il periodo dell’anno in cui il sole illumina in modo più obliquo la terra e la scalda meno. Punto di vista glaciale come certe temperature, eppure comincia tutto da quello: dall’inclinazione del nostro pianeta rispetto alla sua stella. La condizione climatica che ne deriva, l’inverno, s’intreccia da secoli con la storia dell’uomo. Quando arriva cambia le nostre abitudini, mette alla prova la nostra resistenza, tocca le corde profonde della nostra anima, ci fa apprezzare il calore del Natale. È quindi anche un viaggio dentro di noi, quello che vi proponiamo in queste pagine. Ci accompagnano due libri: Inverno - Il racconto dell’attesa di Alessandro Vanoli (edizioni Il Mulino) e Nevica in Ticino di Filippo Ricciardi (Fontana edizioni).
In Internet non nevica. Non che non possiate trovare immagini e materiale di ogni genere sull’inverno. Anzi. Il fatto è che nel mondo virtuale la stagione fredda non esercita il suo incantesimo: non immobilizza lo spazio avvolgendo tutto in un manto ghiacciato e soprattutto non rallenta la percezione del tempo. Così, travolti come siamo dal ritmo incessante della vita digitale, per parlare d’inverno abbiamo sentito il bisogno di andarlo a cercare. Zaino in spalla, ci addentriamo in una valle profonda e selvaggia. Non importa quale. Ci accompagna un libro, quello di Vanoli, che racconta il rapporto fra l’uomo e l’inverno in tutte le sue sfumature: dalla caccia durante l’era glaciale al significato del Natale, dalle esplorazioni antartiche alla guerra bianca. Un percorso attraverso la storia. Andiamo.
Una lezione antica
Comincia tutto da una distesa gelata dell’Europa orientale. L’orologio è andato indietro di circa trentamila anni e il pianeta sta vivendo uno dei suoi grandi inverni perenni: un’era glaciale, la prima per l’umanità. «Il nord è ricoperto da una spessa corazza di ghiaccio, che dal circolo polare artico scende sino a quella che un giorno sarà la Germania». I pochi uomini presenti pensano soprattutto a procurarsi da mangiare e una delle attività più attese è la caccia ai mammut. «L’immensa mandria nera - la descrive Vanoli - Un agitarsi furioso di zanne, pelo e zampe, come in un sogno, con la neve che esplode al loro passaggio». Quei nostri antenati l’inverno lo vivevano sulla pelle e con pochi filtri, ad eccezione delle loro capanne sostenute da ossa animali e di vestiti ricavati anch’essi dalla sopraffazione di prede o predatori. Ne sono passate di stagioni per arrivare alla giacca in tessuto tecnico che indossiamo oggi durante la nostra salita. Eppure, secondo l’autore, qualcosa a quegli uomini ci lega. «Chissà se nel profondo, sotto i pesanti strati di tutte le civiltà che ci portiamo addosso, quel sollievo che ancora sentiamo al chiudere la porta davanti a un camino acceso non sia la memoria di quelle stagioni lontane, di quando imparammo a sopportare la solitudine di quell’infinito primo inverno».
L’inverno che ha cambiato tutto
Il sentiero a gradoni che si arrampica sulla montagna è cadenzato da una serie di cappellette con le immagini di Gesù, la cui venuta al mondo diede un significato unico a tutti gli inverni da allora. Ma quando è cominciato davvero il Natale? La risposta di Vanoli va oltre la religione: «Giunge nel periodo in cui la luce sparisce dal cielo, e noi dobbiamo allora compensare accendendo la notte con tutte le luminarie che possiamo. Perché il Natale è tante cose assieme: è una festa del rinnovamento del mondo, una festa del solstizio e una festa al centro della storia cristiana».
La montagna che avanza
Tra i dossi cominciamo a intravedere una delle cime più alte con il suo piccolo ghiacciaio. Chissà per quanto tempo ancora potremo descriverlo. E pensare che seicento anni fa il problema era opposto. «Nel 1601 i contadini di Chamonix, in preda al panico, si rivolsero ai Savoia, perché il ghiacciaio oggi noto come Mer de la Glace, nella sua avanzata irrefrenabile, aveva già seppellito due villaggi e ora ne minacciava un terzo». È l’ultima, piccola, era glaciale. Pochi decenni dopo, il tedesco Martin Zeiller raccontava in questi termini l’ingrossarsi del ghiacciaio di Grindelwald. «La gente del posto, che osserva dall’alto la scena, riferisce che questa montagna continua a crescere e spinge via davanti a sé la propria base, o terreno, sicché i bei prati che c’erano prima stanno scomparendo» e «in diversi luoghi la gente è dovuta fuggire».
Viaggi sotto lo zero
Anche se a volte facevano paura, i ghiacci hanno sempre esercitato un certo fascino sull’uomo e in particolare sugli esploratori. James Cook è il primo con la sua nave a superare il circolo polare antartico. Siamo nel 1773. «Che possa esserci un continente di grande estensione vicino al polo io non lo nego - scrisse il comandante dopo aver avvistato i primi banchi di ghiaccio - Il freddo intensissimo, le numerose isole e le vaste zone di ghiaccio galleggiante, tutto tende a dimostrare che ci debba essere una terra a sud. Ma se queste sono le terre che abbiamo scoperto, che cosa possiamo aspettarci da quelle giacenti ancora più a sud? Se mai ci sarà qualcuno che prenderà la decisione, spingendosi più oltre di quanto io non abbia fatto, non gli invidierò l’onore della scoperta». Arriveranno, quelli che si spingeranno nel cuore dell’inverno più rigido del mondo. Anche pagando con la vita.
L’avversario più pericoloso
Di vite l’inverno ne ha spente tante durante le guerre, a volte giocando un ruolo decisivo. Succede nel 1812, quando la Francia di Napoleone sfida la Russia sottovalutando il potere del suo comandante più pericoloso, il «Generale Inverno». Dopo aver occupato una Mosca svuotata di ogni risorsa dai sovietici, i transalpini si trovano a combattere con il freddo. «Le truppe pernottarono per mesi nella neve, a quindici gradi sotto zero, senza stivali né pellicce, con razioni insufficienti, e senza vodka, dove il giorno durava soltanto sette o otto ore, e il resto era notte». L’inverno è un fattore anche fra il 1915 e il 1917, quando sulle Alpi si consuma la «guerra bianca». Ogni soldato ha due generi di avversari: l’esercito nemico da una parte; il gelo, la bufera e le slavine dall’altra. Difficile sopravvivere a entrambi.
Un’entità che va oltre
Salendo, le baite si fanno sempre più rade. Da lontano fa effetto vedere quei piccoli puntini sovrastati da pareti e ripidi versanti. Tempo fa è caduta una frana e proseguire verso il passo, dicono, è pericoloso. Lo è anche passare di qui in pieno inverno, quando la neve accumulata su canali e pendii è una minaccia costante. Ne sa qualcosa chi ha vissuto il 1951 della Val Bedretto, raccontato da Giovanni Orelli ne L’anno della valanga. «Quando vedevo i genitori arrivare a prendere i ragazzi a scuola percepivo il timore anche negli uomini più forti e coraggiosi - rievocava l’autore sette anni fa su queste colonne - Poi c’erano le donne che pregavano in continuazione, mentre fra gli anziani regnava un silenzio di rassegnazione, come se aspettassero impotenti la morte». Qui l’inverno, con le sembianze della valanga, diventa un’entità che va oltre la natura. «In certi casi subentravano comportamenti irrazionali, come quando una donna espose il crocifisso fuori da casa e disse: ‘Prendine un po’ anche tu, che sei onnipotente’».
Ascoltare il freddo
Ora l’inverno fa meno paura. È cominciato tutto con la diffusione del riscaldamento, grazie a cui la stagione fredda è diventata qualcosa da osservare, mentre un tempo imponeva la sua legge. «Da bambini - racconta Vanoli - abbiamo tutti giocato nella neve sino a non sentire più le mani e abbiamo tutti rabbrividito in una notte di vento invernale. Ma è un freddo recente quello che abbiamo conosciuto, un freddo moderno in un certo senso: fatto di case sicure, di termosifoni, di tempo passato più che altro al caldo». La caccia ai mammut è lontana, ma dentro di noi, secondo l’autore, qualcosa è rimasto, «malgrado i rumori assordanti delle macchine e le dozzinali luci al neon delle vetrine, i bambini soffocati da inutili doni, la neve finta e i ghiaccioli di plastica. La lezione del freddo è antica, bisogna solo ritrovarla». È ormai notte e le montagne si stagliano nere in un cielo senza nuvole. Davanti alla sua cascina un valligiano ha addobbato un piccolo abete con tanto di luci e musichetta: una gemma di Natale incastonata nel bianco. A un certo punto anche la natura sembra voler fare la sua parte. Sul manto nevoso compaiono centinaia di puntini luminosi: è il riflesso della luna che è spuntata fra i picchi. Essa di lì a poco rischiara i nevai e fa brillare le lastre di ghiaccio più esposte. Non c’è un filo di vento. Il silenzio è totale.
UNA FESTA CHE HA TANTE RADICI
E QUEL BISOGNO DI RITROVARE IL SUO VERO SENSO
L’inverno è uno scrigno che contiene tante storie, che a loro volta ne custodiscono altre. Scopriamo quella del Natale, un forziere a noi caro. In esso - spiega Vanoli - convergono da sempre festività diverse che affiancano quella della nascita di Cristo. «I doni, i santi miracolosi, per non parlare dei loro aiutanti fatati, folletti o demoni che fossero: era una festa del rinnovamento del tempo, della speranza di rinascita, del conflitto antico tra le stagioni». Il Natale come lo viviamo oggi è quindi un mosaico che ogni popolo ha composto nel tempo scegliendo i propri tasselli. Uno è il giorno della festa. La prima testimonianza scritta sul 25 dicembre risale al 354 e viene dal Cronografo, un almanacco romano. Come mai proprio quel giorno? Una teoria - racconta Vanoli - è quella della sovrapposizione con il culto del Sol Invictus, che univa elementi egizi alla tradizione persiana del dio Mithra. «Fin dall’età di Aureliano era stata fissata una festa in onore della sua nascita proprio il 25 dicembre. E probabilmente, sin da subito, i cristiani ci avevano colto una sorta di assonanza». L’albero, invece? Per scovare il primo che possa essere accomunato a quelli odierni andiamo in Estonia. «A Tallinn, nel 1441, fu eretto un grande abete nel bel mezzo della piazza del Municipio attorno al quale, dicono le cronache, giovani scapoli, uomini e donne, ballavano insieme alla ricerca dell’anima gemella».


L’usanza di averne uno in casa e addobbarlo arriva più tardi. «Lo vediamo ad esempio in una cronaca di Strasburgo del 1604 che riporta una delle prime descrizioni dell’albero: collocato nelle case durante il periodo delle feste e decorato con ‘rose fatte di carta colorata, mele, biscotti, dolciumi e altro’». Prendetelo come un indizio: ci stiamo avvicinando al Natale come lo viviamo oggi. Avanziamo ancora di un secolo. «Il Natale delle candele accese, dei dolci della tradizione, del calore di un camino acceso e dei giocattoli sparsi sul pavimento cominciò a mostrarsi solo a fine Settecento tra le famiglie borghesi del nord Europa». Non succede per caso. Nasce tutto da un concetto che inizia a farsi strada in quel tempo: la tradizione, il bisogno di rimettere insieme le tessere della propria storia. Così anche il Natale viene percepito in modo nuovo. «Festa cristiana certo, ma anche festa che si legava al passato pagano dei popoli germanici. La magia, insomma, e gli esseri fatati cominciarono ad avere un ruolo non secondario. Poi c’era tutto il resto: l’albero, la famiglia riunita, le decorazioni, i doni ai bambini. Tutti elementi che contribuirono a formare la cosiddetta Weihnachtsstimmung, quell’atmosfera natalizia che di fatto nasceva allora». La modernità invece ha creato un nuovo bisogno: quello di vivere «il vero spirito del Natale». La frase - che avrete già sentito - fa riflettere: oggi, forse, su questa festa brillano troppe luci.
SUONI E PAROLE: SCHUBERT, GLI WHAM e ŽIVAGO
L’inverno viene spesso associato al silenzio: condizione privilegiata per calarsi nel suo spirito. Alcuni suoni tuttavia - oltre ai pochi emessi dalla natura immobilizzata dal gelo - riescono ad essere altrettanto efficaci. Per esempio quelli del Winterreise di Franz Schubert (1828). «Una delle cose più romantiche che al tempo la cultura tedesca riuscisse a immaginare - scrive Vanoli - L’inverno, la notte e l’errare di un amante respinto; dove tutto, dal paesaggio ai sentimenti, si trasforma in un itinerario metaforico, in una ricerca del senso stesso della vita. Ma al di là della metafora, l’inverno che Schubert ricrea attraverso il pianoforte è quanto di più reale si possa ascoltare: l’urlo del vento, l’infuriare della tempesta, lo scorrere dell’acqua sotto il ghiaccio, il gracchiare dei corvi... persino il lento divenire dei fiori di ghiaccio». Ora ai suoni aggiungiamo le parole e trasferiamoci nel 1968. «La terra stanca sotto la neve / dorme il silenzio di un sonno greve / l’inverno raccoglie la sua fatica / di mille secoli, da un’alba antica». La riconoscete? È Inverno di Fabrizio De Andrè, «una bellissima triste poesia sull’amaro della vita e sull’attesa di un riscatto». L’inverno di Saas Fee, invece, nel 1984, fa da cornice al videoclip di Last Christmas degli Wham, che sta all’estremo opposto della galassia musicale. «Lo scorso Natale / ti ho dato il mio cuore / ma appena un giorno dopo / l’hai buttato via». Adesso spegniamo la musica. Solo parole. Ricordate la casa di ghiaccio dove trovarono rifugio il dottor Jurij Živago e Lara Antipova? Nel libro di Boris Pasternak, uscito nel 1957, rappresenta «una calda intimità che un luogo perduto, circondato dalla vastità del gelo, può donare all’animo umano». Le ultime righe le lasciamo allo stesso Pasternak: «Jurij Andrèevic passò nella stanza accanto, fredda e non illuminata, da cui si vedeva meglio l’esterno, e guardò dalla finestra. La luce della luna piena fasciava la radura nevosa con una vischiosità tattile d’albume o di biacca. La sontuosità della notte di gelo era indescrivibile. La pace era scesa nel suo animo. Tornò nella stanza illuminata e calda, e si mise a scrivere».
UN SECOLO E MEZZO DI NEVICATE
CHE HANNO SEGNATO IL TICINO
Alzi la mano chi non ha un ricordo legato alla neve. Un ricordo piacevole: una passeggiata dentro un universo candido e quasi irriconoscibile rispetto al solito; o un ricordo spiacevole: un viaggio in automobile che si trasforma in un’odissea senza fine e non certo priva di pericoli. Al contrario della pioggia, che fa notizia soltanto quando cade in maniera eccessiva e inizia a fuoriuscire da fiumi e laghi o a provocare frane; alle nostre latitudini la neve continua a costituire un piccolo evento e anche nei giorni scorsi non sono mancati sui siti d’informazione i titoli del tipo «Primi fiocchi in pianura». La neve, come detto, ha poi la capacità di trasformare il paesaggio, non tanto quello montano ma in particolare quello urbano. In caso di forti precipitazioni, strade e marciapiedi possono diventare piste da sci o da slitta, e le auto parcheggiate soffici cumuli privi di una forma precisa. Del resto, è proprio il traffico automobilistico ad essere fortemente influenzato (e spesso addirittura compromesso) dalla insidiosa coltre bianca. I treni continuano a circolare senza troppi problemi, i pedoni rischiano qualche scivolone, ma al volante c’è chi - non appena i primi fiocchi sfiorano il parabrezza e pur essendo perfettamente equipaggiato - precipita in uno stato di panico che può condurre a comportamenti altamente pericolosi per sé e per gli altri. In altitudine, invece, la neve è da una parte sinonimo di sport invernali e dall’altra di slavine e valanghe che possono mettere in pericolo sia la vita degli sciatori più incauti, sia quella di interi villaggi o di centri turistici edificati spesso senza curarsi troppo dei problemi di sicurezza, vedi l’albergo di Rigopiano trasformatosi, poco meno di due anni fa, in una trappola mortale per 29 persone.

Il recentissimo volume illustrato Nevica in Ticino (Fontana edizioni, 128 pp., 46 franchi) di Filippo Ricciardi, già autore di pubblicazioni sullo stesso tema riguardanti la Lombardia, non pretende certo di affrontare tutti questi argomenti in maniera scientifica o esaustiva, ma punta soprattutto sull’idea del ricordo, veicolato in primo luogo da fotografie provenienti da diverse fonti ma anche da ritagli di giornale e dalle precise misurazioni fornite dall’osservatorio di MeteoSvizzera a Locarno Monti. L’arco cronologico coperto dal volume è di oltre un secolo e mezzo: dal gennaio 1863 al dicembre 2017. Inverni (ma a volte anche primavere) che hanno lasciato tracce più o meno profonde nella memoria collettiva locale, a causa delle condizioni atmosferiche eccezionali o degli incidenti e delle tragedie verificatesi. Una carrellata che può semplicemente essere letta come la dimostrazione che nulla è cambiato in tutto questo tempo e che la neve continuerà a cadere some sempre. Se si spulcia però tra le righe, vengono alla luce i preoccupanti mutamenti climatici che fanno sì che anche gli eventi nevosi diventino sempre più estremi. Per le future generazioni, quindi, i ricordi legati alle nevicate rischiano di essere sempre meno luminosi e sempre più cupi.