Una chiamata e scattano: 12 ore con i soccorritori del SAM

Potremmo tranquillamente mettere la mano sul fuoco: si sentono le sirene dell’ambulanza e il pensiero corre giocoforza alla tragedia e al dramma. Questa, però, è solo una parte della storia. Il resto lo apprendiamo in un’intensa giornata trascorsa in compagnia dei professionisti del SAM (Servizio autoambulanza Mendrisiotto). Veniamo così a sapere che il veicolo giallo non è solo sinonimo di sofferenza: nella sua pancia si è già più volte celebrato il miracolo della nascita. Il mezzo è dunque stato – a più riprese – culla nonostante le sirene spiegate, rifugio malgrado la frenesia dei gesti, delle parole.
«Piccole cure intense» – per dirla con il capo servizio operativo Andrea Bigi – con cui prestare aiuto a chi ne ha bisogno, dando il via a una terapia che andrà poi proseguita nell’ospedale più indicato: in questi termini – estremamente riassuntivi – potrebbe essere sintetizzata l’essenza stessa del SAM. Bigi, Luca Biolcati (coordinatore cantonale dell’unità di intervento tecnico-sanitaria) e tutti gli altri (una trentina di professionisti, una decina di medici d’urgenza e una cinquantina di volontari; dieci persone hanno appena iniziato il corso e diventeranno, nel giro di sei mesi, soccorritori volontari) sono le anime e i corpi a cui la fredda sequenza numerica – il 144 – non rende sufficientemente giustizia. Una «famiglia», così si autodefiniscono, la cui quotidianità (scandita da turni di dodici ore) sottostà a dettami cromatici che ne modellano la forma: il codice «verde» definisce i casi più blandi, quelli «rosso» e «blu» le urgenze. Una voce da un altoparlante esplicita, ribadendola, la gravità del caso.
Adesso, per esempio, è arancione la luce all’origine della controllata agitazione dei soccorritori. Una signora 97.enne è rimasta chiusa in casa e non risponde alle chiamate della nipote, che ha allertato i soccorsi. Quando giungiamo sul posto, verso le 11 di una mattina eccezionalmente calma, l’anziana donna è stesa a terra – cosciente – tra il divano e il mobile sul quale poggia il telefono. Il figlio, che abita con lei, è uscito di mattina presto; ciò significa che la signora può trovarsi in quella posizione da minuti come da ore. Poco importa, in fondo. Quello che conta sono le azioni, non le congetture: la signora respira? Se sì, come? E che dire della circolazione? Mani e strumenti ispezionano con delicatezza il corpo della paziente; una serie di interrogativi – che giorno è? che ore sono? – sonda lo spessore delle funi che la tengono ancorata alla realtà. A un breve dialogo segue infine il trasferimento all’OBV per ulteriori controlli, anche se la situazione non appare grave («Che lavoraccio che fate!», esclama a più riprese la donna). Quando usciamo, l’intero appartamento è avvolto in un velo di tenerezza.
Il record del 2019
Scampato pericolo. Quanti sono, in un giorno, i pericoli scampati o divenuti tragedia e abbattutisi su una vita, su una famiglia? «In media interveniamo circa 12 volte al giorno», dice Bigi. «Da qualche anno si superano le 4.000 uscite: nel 2019 sono state 4.116, un record». Una progressione che Bigi spiega con la graduale presa di coscienza dell’importanza del servizio e di quello che è diventato in questi anni. In sede c’è anche il tempo per le spiegazioni: lo stallo, l’attesa del prossimo intervento sembra acquistare dimensioni abnormi, i minuti non sono più composti da 60 secondi, le leggi umane e fisiche sono cambiate. Da profani siamo impegnati in un corpo a corpo con la voglia di fare, con la beffarda sensazione di essere inutili. Un’impressione che Bigi e i suoi hanno da tempo reso inoffensiva. Il capo servizio ci mostra le ambulanze, posteggiate per grado di uscita nel sotterraneo: tre urgenze (la terza sarà in servizio fino alle 15.30) e due «di backup», pronte a essere utilizzate in caso di bisogno. «Il nostro obiettivo è uscire entro due minuti a partire dall’arrivo dell’allarme da parte di Ticino Soccorso 144. Abbiamo un tempo medio di un minuto e dieci».
L’importanza della rete
L’intervento a cui abbiamo assistito si è rivelato piuttosto asettico: nulla che si discosti dalla normale routine. E in caso di un avvenimento grave? In che modo riuscire a controllare non solo la situazione, ma anche se stessi? Come impedire che l’ondata di emozioni crei dei naufraghi? «Come soccorritori professionali e medici d’urgenza bbiamo le competenze tecniche e cliniche per affrontare ogni genere di intervento», così Bigi. «Inoltre possiamo contare sul supporto di una struttura. Durante un intervento grave, che ci mette in difficoltà, abbiamo 24 ore su 24 un medico d’urgenza e un capo intervento che possono aiutarci, anche solo trasportando il paziente o fornendo una visione differente della situazione». D’altra parte, è anche vero che «sicuramente ci sono i casi che ti lasciano l’amaro in bocca o quelle sensazioni un po’ particolari. È però bene ricordare che in sede ci sono sette colleghi che hanno frequentato il corso di “peer support” (per sostenere i colleghi a livello psicologico, ndr.) nonché la possibilità di richiedere un supporto specialistico». Una rete, in altre parole, che impedisca al soccorritore di «cadere nei se e nei ma». E il debriefing, una volta conclusa la «missione», è sempre un’operazione benefica, per quanto concerne gli aspetti emotivi e tecnici.
Il secondo intervento ci sorprende verso sera. Un uomo di 87 anni è caduto in casa propria, andando a battere la testa contro lo spigolo del letto. Il fatto che assuma anticoagulanti complica la situazione: un’eventuale perdita di sangue non si fermerà nei tempi «standard». La diagnosi viene emessa rapidamente: trauma cranico lieve. Anche in questo caso è indicato il trasporto in ospedale. Sull’ambulanza il signore è tranquillo, chiacchiera con i soccorritori, racconta del suo passato, curiosamente legato alla situazione: anche lui lavorava nell’ambito sanitario. Il cuore, tenuto sotto monitoraggio, non gioca brutti scherzi; il ritmo del battito, meccanicamente amplificato dalle apparecchiature, ci accompagna come un metronomo fino all’ingresso del pronto soccorso dell’OBV, dove l’uomo viene preso a carico dai professionisti dell’ospedale. La moglie, alla nostra partenza, ci sorride dalla sala d’aspetto, sventolando la mano. È fiduciosa. Anche suo marito lo è. Sensazioni per nulla scontate, a pensarci bene.
Il lato emotivo
«Bisogna essere pronti ad affrontare la parte visiva dell’incidente ma soprattutto quella emotiva, perché il soccorritore può trovarsi nella situazione di assistere i parenti, di doverli aiutare magari a prendere decisioni con l’aiuto del medico. Questo prima che arrivi sul posto il Care Team Ticino». Non è facile il compito del soccorritore, e Bigi, al SAM ormai da 19 anni, lo sa bene. «Si deve costantemente lavorare su se stessi e capire che cosa si può fare meglio. I soccorritori vivono spalla a spalla quotidianamente, dodici ore di fila, di giorno e di notte: è necessario che riescano a sostenersi reciprocamente. La nostra grande fortuna è che abbiamo un gruppo fortissimo e unito».
«Il SAM è l’unica struttura di questo tipo, a livello cantonale, che dispone di due figure distinte: una che si occupa dell’operatività del servizio autoambulanza – Andrea Bigi – e una, in questo caso io, che gestisce gli aspetti sociosanitari», afferma il capo servizio sociosanitario Alan Zuccolo. Ma non si tratta dell’unica particolarità: da qualche anno, prima sotto la direzione di Paolo Barro e ora con Carlo Realini, il SAM si sta sviluppando per offrire tutta una serie di attività legate all’ambito sociosanitario e diventare sempre più un «centro di salute». Così, se l’ambulanza rimane il «core business», il servizio si occupa anche dei picchetti alle manifestazioni, della formazione esterna, dei trasporti delle persone anziane e disabili e della collaborazione con l’aiuto domiciliare. Attività collaterali a cui si è dato il via anche per far fronte alla progressiva evoluzione dei costi della salute, cercando così di diminuire i costi a carico dei comuni.
Un interesse costante
«Siamo diventati permeabili», dice Bigi. «La gente entra nella nostra sede, vede il servizio e impara a conoscerlo durante le assistenze che effettuiamo alle manifestazioni della nostra regione». I corsi offerti si dividono in formazione esterna (a ditte, privati, scuole e asili nido) e interna, come ci spiega la responsabile Ottavia Rusca: «L’interesse per la professione c’è sempre». Bando dunque ai cliché presi a prestito dai telefilm, rei di creare «un’immagine di quest’attività molte volte distorta», constata Bigi. Noi speriamo di essere riusciti a distanziarci dall’epica quanto ingannevole narrazione di E.R. per restituire un quadro più fedele di questa professione.