Una mamma e una bimba ticinesi e il loro «normalissimo» Israele

Sembra quasi impossibile parlare di Israele in termini che non siano quelli dell’analisi politica e/o bellica. La crisi coi palestinesi si è riaccesa violentemente nelle scorse settimane e la stabilità di governo è una scommessa tutta da giocare. Eppure, per la ticinese Myriam di Marco Israele è qualcosa di intimo e vicino, come attesta il suo libro Mamma ritorneremo? Il mio normalissimo Israele, edizioni San Paolo. L’abbiamo intervistata.
«Ho studiato filosofia alla Facoltà di teologia di Lugano, ci spiega Myriam Lucia Di Marco. Come lingua classicaho scelto ebraico biblico. Da lì è partita la passione verso il popolo ebraico. Delineandomi nel corso degli studi sulla filosofia politica contemporanea è stato quasi scontato analizzare e studiare il sistema politico israeliano e, accanto a questo, i sistemi iraniano, saudita e turco. Argomenti che ho trattato nel dottorato a Roma».
In Israele Myriam Di Marco ci è arrivata per il post-dottorato. «Non potevo continuare a studiare quel Paese senza andarci. Ho mandato delle candidature e sono stata presa dall’università statale di Haifa. Ne ero felice perché lì ci sono le montagne e il mare. Essendo cresciuta a Lugano mi sono un po’ ritrovata. Col consenso di mio marito, mi sono spostata lì con la bambina, Bianca, che allora aveva tre anni, e ci ho vissuto tra il 2016 e il 2017».
Letteratura di viaggio
E il suo libro? «È un reportage, letteratura di viaggio. Una raccolta di episodi realmente accaduti che mi hanno consentito di raccontare Israele e i suoi abitanti. Cerco di mostrare e comprendere ad esempio la reazione degli israeliani (drusi, ebrei, cristiani, ecc) a quello che sopportano ogni giorno, la costante minaccia di guerra, con dolci sempre a portata di mano e grandi parchi giochi per i bimbi. Oppure la grande preoccupazione di madri e padri per i figli mandati in guerra. Dalla mia camera da letto vedevo le coste del Libano, e i caccia che si dirigevano verso la Siria. Quelli vanno a bombardare, pensavo, non a fare esercitazioni tra le montagne come in Svizzera».
Il libro, quindi, è una lettura di Israele con gli occhi di una ticinese. «Esatto, una lettura sotto diversi punti di vista. Dal punto di vista sociale, ad esempio, mi ha colpito il grande aiuto che ho avuto da subito e la grande attenzione verso i bambini. Non potevo sgridare Bianca per strada, per esempio. Perché si fermavano e a loro volta sgridavano me».
Sembra una conferma all’idea delle ebree come mamme-chiocce... «Assolutamente. Ma sono così non solo le donne. Tutti proteggono i bambini, li fanno crescere direi in una sorta di mondo dei balocchi. Ancora adesso, a quattro anni di distanza, mia figlia mi chiede quando riandremo in quei grandi e meravigliosi parco giochi. È molto frequente che regalino caramelle ai bambini in pullman o nei negozi. Non potevo avvicinarmi al bus col passeggino che qualcuno subito mi aiutava. Tutti: i sefarditi, gli askenaziti, gli europei, gli ebrei cristiani, gli arabi, i drusi...»
E le donne? Cosa prevale in Israele: l’emancipazione o la relegazione in casa? «Il mondo ebraico (e parlo solo del mondo ebraico) – spiega la nostra interlocutrice - è molto variegato. Ci sono le donne ortodosse, quelle conservative, le donne riformate, le donne laiche e secolari come noi. Le donne ortodosse le riconosci perché vestono di nero e portano la parrucca. Quelle conservative e riformate sono come noi, ma hanno una particolare attenzione rispetto alle regole alimentari, per esempio. E ci sono quelle occidentalizzate in tutto e per tutto pur restando ebree. In città come Tel Aviv, ci sono le più occidentalizzate. Le cristiane e musulmane invece si differenziano rispettivamente per i loro caratteri occidentalizzanti o arabi».


La libertà delle donne
Come donna, Myriam Di Marco, si sente abbastanza libera in Israele. «Anche se dipende dalle zone. Ci sono le grandi città, come Haifa, che sono multiculturali e ci trovi il banchiere ebreo che porta i suoi fidati clienti al miglior caffè arabo della zona. Idem Tel Aviv. Mentre a Gerusalemme si respira maggiormente la tensione religiosa ed etnica. Ci sono alcuni quartieri nei quali una donna è meglio ci vada accompagnata da un uomo, oppure all’interno di un gruppo di turisti. In Israele vi è di tutto, è importante dunque tenere in considerazione diverse sensibillità religiose e le rispettive regole: ci sono quartieri ebraici ultraordotossi che è meglio evitare, per non prendersi qualche insulto; oppure quartieri totalmente musulmani che non sono sicuri per una donna giovane da sola».
Per esempio, immaginiamo, non è il caso di ignorare che esistano molte e diverse comunità. E la cronaca delle scorse settimane dimostra quanto sia difficile per loro la convivenza. «Israele è un insieme di tutto, e nessuno vuole rinunciare alla propria casa e terra. La convivenza è d’obbligo a questo punto. Ma preferisco parlare di coesistenza a questo livello, non di convivenza. La convivenza presuppone il «vivere» insieme, la coesistenza invece l’«esistere» insieme. La mia ricerca sul federalismo svizzero per Israele svolta a Haifa serviva proprio a mostrare i punti salienti del sistema elvetico per aiutare la popolazione multietnica e superare il conflitto. Si sta migliorando negli ultimi anni grazie al mix di culture e religioni soprattutto presente negli ambiti importanti della società, come la sanità e i servizi pubblici. Su altri, come l’educazione, ci vorrà ancora tempo. La società ad ogni modo sta cambiando».
Le cose cambiano
Mentre l’ascoltiamo non riusciamo a trattenere un’espressione incredula. «Ma è così. Sempre più arabi, negli ultimi anni, si stanno per esempio arruolando nell’esercito israeliano. Stanno cambiano mentalità, la maggior parte di loro non ha più un atteggiamento di rivalsa nazionalistica derivante dalle generazioni precedenti. I giovani capiscono che così non si arriva da nessuna parte. Sempre di più nei giovani arabi si comincia a capire che è meglio difendere la propria casa, la propria famiglia ed ecco perché vanno nell’esercito. Idem per i drusi, minoranza musulmana, riconoscenti nei confronti di Israele che in cambio di lealtà allo Stato promette protezione. Protezione che non avrebbero negli stati arabi limitrofi, ma anzi solo persecuzione. Siamo insomma a forme di sopravvivenza, di coesistenza. Alla convivenza ci si arriverà con le nuove generazioni. I giovani sono stufi».
Per decenni ci siamo abituati, qui in Europa a sentir parlare di Israele in termini di una perenne intifada da una parte e di una perenne repressione dall’altra. Un’immagine rafforzata dagli scontri delle scorse settimane. «Capisco, ma le cose sono più sfumate e più complicate. Anche qui gli arabi si suddividono in più fazioni, da quella che vuole giungere alla convivenza a quella che vuole far morire tutti gli ebrei. Ho amici e conoscenti arabi israeliani che hanno timore ad esempio di uno Stato a tutti gli effetti palestinese con regolari elezioni, perchè il timore che possa giungere un governo terroristico al potere, oppure accordi poco trasparenti della leadership, non considerando i bisogni della popolazione è dietro l’angolo. in questo momento così teso e delicato, l’errore principale sarebbe confondere Hamas, gruppo terroristico che incita al jihad, e la compagine palestinese che ha a tutti gli effetti un governo (anche se con alcuni elementi controproducenti).».
Facciamo notare che la politica israeliana non è esente da vicende sporche, come attestano le inchieste su alcune delle massime cariche dello Stato. Senza contare l’instabilità politica israeliana. «È vero. Sappiamo benissimo che prima o poi Netanyahu, che oggi non è più premier ma di cui non si può ancora dire con certezza se sia politicamente finito, dovrà andare in tribunale. Così come non abbiamo idea di quanto possa reggere la nuova formazione al potere in Israele. Tuttavia il nuovo governo è a tutti gli effetti un tentativo alternativo di coesistenza, anche in politica. Ma la situazione è decisamente fragile su entrambi i fronti».


Gli opposti estremismi
Il destino della zona è quindi segnato? Le violenze continueranno in eterno? Myriam di Marco ha una sola certezza: «convivenza, senza un vero progetto anche educativo per le nuove generazioni, non si va lontano. E, come ho già indicato, già sul piano sociale le cose stanno cambiando. Perché stanno arrivando così tanti ebrei etiopi in Israele? Perché non c’è più manodopera. Gli arabi israeliani, adesso, non si accontentano più di fare le donne di pulizia o i muratori. Adesso riescono ad arrivare all’università, cominciano ad essere architetti, ingegneri e medici». Le tensioni, tuttavia, sembrano rimanere alte per via degli insediamenti colonici. «È difficile arginare l’estremismo religioso, sia da parte palestinese che da parte ebraica, che porta ad atti di terrorismo. Per quanto riguarda l’estremismo ebraico abbiamo i coloni americani, facenti parte del Movimento delle Colline. Si piazzano in mezzo ai villaggi, prendono la corrente e l’acqua, mettono una bandiera per segnare il loro territorio come se fossero sulla Luna e si insediano lì. Ovvio che poi scattino conflitti con i villaggi. È difficile cercare una soluzione immediata, vi sono implicazioni religiose, nazionaliste, politiche e interessi internazionali».
Le paure di ieri e di oggi
Torniamo al clima bellico nel quale Myriam ha vissuto con sua figlia e che si è riproposto nelle ultime settimane in maniera perfino più pesante. «All’inizio provavo timore, inadeguatezza, disorientamento. Il primo lavoretto che Bianca mi ha portato dall’asilo è stato un braccialetto con una specie di collana. Quando le ho chiesto che cosa fossero lei mi ha spiegato innocentemente: guarda mamma che belli, sono il mio braccialetto e la mia collana anti smarrimento in caso di guerra. Senza contare, che qualche mese dopo, la suora dell’asilo mi ha chiamato per dirmi che Bianca aveva brillantemente superato anche la prova in caso di terremoto e di guerra. All’inizio, insomma, è dura. Poi entri in un’abitudine strana. Quando andavamo al mare vedevamo la solita nave militare che controllava le acque, gli aerei di guerra che andavano verso il nord. Ti sentivi in un certo senso protetto. Ma la gente di Haifa è molto preoccupata».
Soprattutto oggi, dopo la riesplosione delle tensioni interne ed esterne. «Sì, le mie amiche mi hanno scritto spesso durante la fiammata di violenza. E mia figlia Bianca piangeva pensando ai suoi compagni di asilo e ai razzi che potevano colpirli. Si chiedeva: ma faranno in tempo ad arrivare nei bunker? Quando le ho spiegato che la guerra era finita ha preparato delle letterine e le ha spedite ai suoi compagni di quattro anni fa».