«Una politica dell’innovazione per reagire ai tempi che corrono»

I recenti avvenimenti internazionali, dalle guerre alla questione delle tariffe doganali, hanno posto noi europei, e svizzeri, di fronte a riflessioni sulla nostra stessa natura e sul nostro potenziale, anche nel campo dell’innovazione e della tecnologia. Ne parliamo con un peso massimo della materia, ovvero Patrick Aebischer, a lungo presidente dell’EPFL.
Professor Aebischer, viene da chiedersi: fino a che punto siamo padroni del nostro destino nei settori più strategici?
«I profondi cambiamenti geopolitici legati all’arrivo della nuova amministrazione americana costringono Paesi come la Svizzera a riposizionarsi, è vero. L’accesso alle tecnologie che garantiscono la loro sovranità, come la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, la sicurezza informatica, l’accesso ai vaccini, tanto per fare pochi esempi, sta diventando una questione strategica importante, al di là della capacità puramente militare».
Lo stesso potrebbe valere per il mondo accademico. Le università stanno attraversando un periodo difficile. Non è paradossale che in un momento in cui tutti sono chiamati a investire nella massima autonomia, noi stiamo disinvestendo nella formazione?
«Le università sono essenziali per lo sviluppo economico, soprattutto in un momento in cui gli sconvolgimenti tecnologici mettono in discussione interi settori dell’economia. Disinvestire nella formazione e nella ricerca in un momento cruciale di sconvolgimenti tecnologici e geopolitici è molto miope e potenzialmente pericoloso».
In questo preciso momento, lei è proprio negli Stati Uniti con l’intento di comprendere quanto sta accadendo. Che idea si è fatto?
«La nuova amministrazione statunitense sta sfidando la libertà accademica delle università e dei principali enti di ricerca imponendo considerazioni politiche sul finanziamento dei progetti. Le scienze umane e sociali, compresi gli studi di genere e sulle minoranze, sono un obiettivo particolare, ma non l’unico. Ad esempio, la nuova amministrazione sta tagliando i fondi per la ricerca sull’mRNA e sulle malattie infettive, mettendo in dubbio l’utilità dei vaccini. Recentemente, la nuova amministrazione statunitense è entrata in aperto conflitto con le prestigiose università della Ivy League, come Harvard, Columbia e Brown, considerate troppo liberali ed elitarie. Ha ritirato i finanziamenti per un gran numero di progetti di ricerca e sta persino mettendo in discussione lo status di esenzione fiscale delle loro dotazioni. La nuova amministrazione sta inoltre effettuando tagli importanti alle principali organizzazioni di ricerca come la NASA, la National Science Foundation e il National Institute of Health. Così facendo, rischia di indebolire in modo significativo la superiorità tecnologica degli Stati Uniti. Questa è strettamente legata all’attrazione delle menti più brillanti verso le sue prestigiose università, che sono all’origine della rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo. Metterle in discussione è un po’ come segare il ramo su cui si è seduti. Questo è certamente un vantaggio per lo sviluppo della potenza scientifica cinese, ma è anche un’opportunità che l’Europa deve cogliere».
In che misura le decisioni di Trump sulla formazione stanno influenzando la salute del nostro sistema accademico?
«Paradossalmente, il nostro sistema accademico ha più da guadagnare che da perdere. Scienziati di fama, in particolare quelli di origine europea, non si sentono a proprio agio con quanto sta accadendo negli Stati Uniti e sono tentati di rifugiarsi in istituzioni europee dove la libertà accademica è garantita. Anche i giovani europei in formazione saranno meno propensi a frequentare le grandi università americane. Si tratta, insomma, di un’opportunità unica per i nostri due politecnici. L’eccellente reputazione dovrebbe consentire loro di attrarre ricercatori e studenti che vogliono lasciare gli Stati Uniti, ma anche coloro che hanno rinunciato a studiare negli Stati Uniti».
Esprimiamo spesso l’orgoglio per i nostri due politecnici federali, stimati in tutto il mondo. Ma secondo lei la politica fa tutto il possibile per evitare il rischio di perdere prestigio?
«Be’, non è questo il momento di tagliare i budget per l’istruzione e la ricerca, come previsto dal Governo federale nell’ambito del suo piano economico. Al contrario, la Svizzera dovrebbe istituire un fondo speciale per attrarre talenti interessati a entrare nelle nostre istituzioni accademiche, al fine di garantire la prosperità a lungo termine del nostro Paese».
Come valuta il peso dell’accordo concluso con l’Unione europea sui programmi internazionali?
«È molto importante perché permette alla Svizzera di far parte dello Spazio europeo della ricerca e dell’istruzione. È fondamentale per partecipare ai grandi progetti di ricerca europei come l’informatica quantistica, i grandi acceleratori e la fusione nucleare, settori in cui la Svizzera non può agire da sola. Inoltre, è importante partecipare agli scambi di ricercatori e studenti, consentendo loro di arricchirsi intellettualmente e di stabilire legami che faciliteranno future collaborazioni».
È in momenti come questo che si torna a discutere di una politica industriale nazionale. È giunto il momento per la Svizzera di muoversi in questa direzione?
«I nostri politici fanno spesso notare, quando si recano all’estero, che la Svizzera non ha una politica industriale. In effetti, la politica del laissez-faire della Svizzera finora ha funzionato. Tuttavia, questa strategia dovrebbe essere rivalutata nell’attuale contesto geopolitico. Personalmente, sarei favorevole a una politica dell’innovazione. In particolare per le tecnologie legate alla sovranità degli Stati, ma anche per il futuro dei sistemi sanitari esposti all’invecchiamento della popolazione, che genererà costi significativi per la società».
Oppure dovremmo rafforzare la nostra presenza nelle politiche industriali europee. Quale sarebbe la strategia più stimolante per le nostre alte scuole?
«È indispensabile intensificare la nostra partecipazione alle politiche industriali europee. L’Europa è il nostro più grande mercato e il vicino con cui condividiamo gli stessi valori. Ma dobbiamo trovare la nostra nicchia in questo mondo in continua evoluzione. La Svizzera, con il sostegno dei suoi politecnici federali, potrebbe diventare il fornitore di tecnologie sovrane per i Paesi che non fanno parte dei grandi blocchi politici e non sanno più di chi fidarsi. Il termine “Start-up Nation” è spesso usato per rappresentare Israele. La Svizzera potrebbe essere descritta come una “Nazione della fiducia”».
Sembra un momento in cui ogni Paese è chiamato a prendere nuove decisioni. Secondo lei, ad esempio, quali sono i settori su cui dovremmo puntare in Svizzera per mantenere e sviluppare la nostra eccellenza e unicità?
«La Svizzera ha molte qualità che sono strettamente legate all’eccellenza del suo sistema educativo, che integra efficacemente la dimensione accademica e quella dell’apprendistato. Ricordo spesso che il nostro DNA è sviluppare e produrre oggetti piccoli, complessi e affidabili. Come il Giappone, però, siamo molto orientati all’hardware. Questo posizionamento è legato all’orologeria, alle macchine di precisione, agli impianti medici e così via. A questo dobbiamo aggiungere la componente software, dove velocità e aggressività spesso fanno la differenza per il progresso e l’innovazione. La codifica autonoma resa possibile dall’intelligenza artificiale potrebbe cambiare le carte in tavola e permettere alla Svizzera di integrare meglio software e hardware».
La corsa all’intelligenza artificiale è molto sentita. È saggio per un Paese come la Svizzera partecipare? O dovremmo invece concentrarci sulle nicchie?
«L’intelligenza artificiale cambierà profondamente il funzionamento delle nostre società. È quindi essenziale che la Svizzera partecipi a questa rivoluzione apportando il proprio contributo specifico. Ciò potrebbe comportare la formazione di modelli di intelligenza artificiale su dati affidabili. Questa dimensione della fiducia è molto importante nel campo dell’assistenza sanitaria, un settore in cui la Svizzera ha grandi risorse grazie alle sue grandi industrie farmaceutiche, diagnostiche e di impianti medici».
Anche questa intervista, sin qui, lo dimostra: come svizzeri tendiamo a essere ottimisti e a considerarci padroni del nostro destino e delle nostre scelte. Ma è ancora e sempre così, anche in questo preciso momento storico?
«Lo sviluppo tecnologico non è mai stato così rapido e dirompente. Riposare sugli allori potrebbe essere fatale. Essendo per natura perfezionisti e quindi non molto veloci, otteniamo buoni risultati in settori regolamentati come quello farmaceutico e finanziario. Tuttavia, la Svizzera si trova ad affrontare una vera e propria sfida in settori meno regolamentati, proprio come l’intelligenza artificiale».