Alzheimer

Una speranza a fasi alterne

Il fallimento della sperimentazione sul gantenerumab, il farmaco di Roche, rappresenta una nuova delusione nella corsa a un prodotto che possa rallentare la malattia – Ma intanto il lecanemab sembra dare buoni e incoraggianti risultati – Il punto sulla situazione
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Paolo Galli
02.12.2022 06:00

La rincorsa a qualcosa che fermi l’Alzheimer, o anche solo che lo rallenti, è fatta di speranze e disillusioni. È ricca di ostacoli. Al punto che, a volte, di fronte a certe notizie, viene voglia di prendere a calci il mondo, calci a vuoto. Come una lotta contro i mulini a vento, una caccia ai fantasmi. Fino a una nuova speranza. Due settimane fa Roche aveva reso noto il fallimento della sperimentazione sul gantenerumab: il farmaco non è riuscito a ottenere il criterio principale di valutazione nella lotta contro le cosiddette forme precoci della malattia di Alzheimer. I pazienti trattati con il gantenerumab - si legge nella nota della casa farmaceutica basilese - hanno mostrato un rallentamento del declino clinico del 6-8% rispetto al placebo, un risultato giudicato statisticamente non significativo.

L’amiloide resta centrale

Come leggere la notizia? Per rispondere, abbiamo chiesto un aiuto al dottor Leonardo Sacco, caposervizio di Neurologia all’Ospedale regionale di Lugano. «È una notizia negativa che ne segue una positiva. È in effetti un periodo, per quanto riguarda gli interventi anti-amiloide, in cui si alternano informazioni di senso opposto. Recentemente avevamo festeggiato il fatto che lo studio in fase 3 del lecanemab, un secondo farmaco, avesse dato esito positivo. Ora invece siamo di fronte all’esito negativo delle sperimentazioni sul gantenerumab di Roche. Di sicuro c’è che l’amiloide resta centrale nel processo alzheimeriano, ma anche che questi nuovi farmaci riescono ad abbassare il quoziente di amiloide che si trova all’interno del cervello. Resta da capire se il loro effetto clinico sarà significativo. È la sfida dei prossimi due o tre anni». L’Ente ospedaliero cantonale (EOC) non ha sperimentato il farmaco di Roche, bensì l’aducanumab, un terzo prodotto anti-amiloide in corsa verso il mercato e protagonista di una controversia nell’estate del 2021. Spiega ancora Sacco: «La fase 3 ha dato risultati contrastanti in effetti. L’aducanumab ha portato a una riduzione dell’amiloide a livello cerebrale, con effetto clinico dimostrato in uno dei due studi eseguiti, ma non nell’altro».

La cascata

Che si tratti di un farmaco o di un altro, l’idea di fondo è la stessa - anche l’avversario è lo stesso, d’altronde -, ovvero che, nell’Alzheimer, «già vent’anni prima che la malattia si sviluppi, all’esterno delle cellule inizia ad accumularsi in modo anomalo una sostanza, l’amiloide, che va a formare delle placche, placche senili», spiega sempre il dottor Sacco. «Attraverso un processo infiammatorio e altri meccanismi cellulari, queste placche creano all’interno della cellula una reazione che va a coinvolgere un’altra proteina, la proteina Tau, che comincia a diventare iperfosforilata e porta poi alla degenerazione neurofibrillare. È la cosiddetta cascata dell’amiloide». Una cascata di eventi che porta alla morte neuronale delle cellule, alla perdita di sinapsi neuronali e al deficit progressivo di neurotrasmettitori. Insomma, alla demenza senile. «Un processo - dice il dottor Sacco - che dura vent’anni». Vent’anni prima di arrivare ai sintomi clinici. «Una delle domande principali, ora, in termini di farmaci sperimentali, riguarda la tempistica di intervento. Ma anche il dosaggio, oltre che il periodo ideale per verificarne gli effetti». Quando i risultati non danno i successi sperati, le domande da farsi riguardano proprio questi aspetti».

La rincorsa

Ogni farmaco che entra in gioco, che si butta nella pista, equivale a un lumicino di speranza. Ma tra il «semplice» buttarsi e l’arrivare al traguardo c’è un lungo iter, tortuoso, in cui non c’è nulla di scontato. Tutto il contrario. Il dottor Leonardo Sacco spiega: «Nella categoria dei farmaci anti-amiloide, ce ne sono quattro in pipeline, arrivati in fase 3, compreso quello di Roche. Il lecanemab è sotto osservazione dagli organi regolatori e ci aspettiamo una risposta, speriamo positiva, tra gennaio e marzo. Una risposta positiva equivarrebbe all’entrata in commercio del farmaco. Per quanto concerne l’aducanumab, la risposta è attesa entro i prossimi due anni. E siamo in attesa anche dell’esito degli studi sul donanemab. La speranza è che almeno uno o due di questi quattro farmaci possano entrare in commercio. Il che non significherebbe aver risolto il problema della malattia, ma almeno potremmo sperare di rallentarne l’evoluzione».

La grande attesa

Ciò che ci preme però è capire quanto l’universo medico creda in questi farmaci, quanto gli stessi dottori e professori aspettino risposte, un aiuto insomma, in una battaglia durissima e frustrante. Chiediamo allora al dottor Leonardo Sacco di andare oltre la sfera che attiene al medico e di entrare in quella personale. E confessa: «Aspettiamo da tantissimi anni di avere a disposizione un nuovo farmaco. L’ultimo risale ai tempi in cui ancora dovevo laurearmi, alla metà degli anni Novanta quindi. Posso dire una cosa: sono convinto che, dopo tutto questo tempo, presto avremo un nuovo farmaco. E ripeto che non sarà la soluzione, ma sarà comunque un importante passaggio da un farmaco sintomatico a un farmaco che agisce sulla biologia della malattia. Sarà un salto di qualità enorme. Non daremo solo benzina al motore, ma proveremo a riparare il motore». Un po’ di benzina per la speranza dei malati e di chi li accompagna in questo duro viaggio. 

La fuga in avanti del lecanemab richiede prudenza

«Il lecanemab ha ridotto i marcatori di amiloide nella malattia di Alzheimer precoce e ha provocato un declino moderatamente inferiore delle misure cognitive e funzionali rispetto al placebo a 18 mesi, ma è stato associato a eventi avversi. Sono necessari studi più lunghi per determinare l’efficacia e la sicurezza del lecanemab nella malattia di Alzheimer precoce». Questa la conclusione a cui è giunto il «New England Journal of Medicine» attraverso uno studio di cui si è parlato molto mercoledì.

Sì, perché il farmaco, somministrato per via endovenosa ogni due settimane, ha rallentato il declino della memoria del 27 percento in 18 mesi. Risultato davvero incoraggiante, anche perché mai, prima di questo caso, una sperimentazione clinica con un farmaco contro la betamiloide aveva indicato un rallentamento del declino cognitivo. Certo, la riduzione è poco marcata. «I risultati della sperimentazione clinica hanno mostrato che il lecanemab ha rallentato la progressione della malattia. E crediamo che questo dia speranza a pazienti, operatori sanitari e medici e che stimoli ulteriori ricerche sull’Alzheimer e sulle malattie neurodegenerative», ha commentato il dottor Michael Irizarry, ricercatore della casa farmaceutica giapponese Eisai, che ha sviluppato il farmaco con la partner americana Biogen. Sulla base dei risultati degli studi, Eisai e Biogen prevedono di richiedere l’autorizzazione per il farmaco alle autorità statunitensi, giapponesi ed europee entro l’inizio del prossimo anno.

Ma per l’appunto ci sono ancora alcuni aspetti da rivedere. Tornando allo studio, be’, il NEJM ha scoperto anche che il lecanemab è associato a diversi effetti collaterali tra cui mal di testa e microsanguinamenti nel cervello. Complessivamente, si sono verificati eventi avversi gravi nel 14% del gruppo lecanemab e nell’11,3% del gruppo placebo. Insomma, il processo richiede prudenza. 

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