Il dramma

Una vita umana al prezzo di due capre

Oltre 160.mila persone sono state liberate in Sud Sudan grazie al lavoro di un ente cristiano - «Ma ne restano ancora tante altre da salvare»
Andrea Stern
Andrea Stern
21.09.2025 06:00

Una vita umana in Sudan vale quanto quella di due capre, 50’000 sterline sudanesi, l’equivalente di 65 franchi. Oppure, quanto una confezione di vaccini per il bestiame, il prezzo che Christian Solidarity International (CSI) paga per liberare gli schiavi cristiani e animisti rapiti nel Sudan del Sud che a tutt’oggi vivono e lavorano in condizioni indegne nella parte nord, meglio nota semplicemente come Sudan.

«Finora abbiamo salvato oltre 160’000 donne, uomini e bambini - afferma Franco Majok, direttore del progetto di CSI -, ma restano altre migliaia di persone da liberare. Il nostro lavoro proseguirà finché l’ultimo schiavo non sarà tornato a casa».

Franco Majok sarà a Locarno domenica 28 settembre - alle 15 al Centro Sacra Famiglia ai Saleggi - per illustrare un fenomeno che si svolge ben lontano dai riflettori internazionali.

Cristiano di etnia Dinka, la più popolosa tribù del Sudan del Sud, Franco Majokè stato lui stesso toccato dalle razzie schiaviste, nel 1985, quando le milizie islamiste sostenute dal governo del Sudan fecero incursione nel suo villaggio, uccisero decine di uomini e sequestrarono donne e bambini, tra cui una sua nipote che non è mai più stata rivista.

Era il periodo della guerra civile sudanese, scoppiata nel 1983 dopo che il governo del Sudan aveva deciso di imporre la legge islamica in un Paese multiconfessionale. Gli abitanti della parte meridionale, africani cristiani e animisti, si ribellarono contro la misura adottata dai dirigenti del nord, arabi e musulmani. Per tutta risposta, il governo sudanese armò milizie arabe e musulmane che, talvolta sostenute dall’esercito sudanese, conducevano incursioni nella regioni meridionali, bruciando villaggi, rubando mucche e capre, uccidendo gli uomini e catturando donne e bambini per ridurli in schiavitù.

Dec ine e decine di migliaia di cristiani e animisti del sud vennero così deportati al nord nel corso di una guerra civile conclusasi solo nel 2005 con la firma di un accordo di pace tra il governo sudanese e i ribelli del sud (Sudan People’s Liberation Army). Da allora le razzie schiaviste sono cessate. Tuttavia, l’accordo non prevedeva alcuna disposizione per la liberazione delle persone deportate al nord. «La questione era considerata troppo delicata», commenta John Eibner, promotore e primo responsabile del progetto di CSI, iniziato nel 1995.

Chiarmente i sudanesi del sud non attesero la fine del conflitto per cercare di riportare a casa i propri cari. In un primo tempo si avvalsero della collaborazione di alcuni clan arabi, cui veniva concesso di commerciare nei mercati del Sudan meridionale e di far pascolare il proprio bestiame in aree designate in cambio della loro disponibilità a facilitare il ritorno di donne e bambini che erano stati ridotti in schiavitù. Era una rete clandestina, su piccola scala, ma era meglio di niente.

A dare una decisa accelerazione all’attività di liberazione degli schiavi è stato l’intervento di CSI, nei primi anni ‘90. L’organizzazione umanitaria cristiana fu sollecitata dai leader delle comunità del Sudan meridionale, che chiedevano aiuto per le vittime della guerra civile. John Eibner si recò sul posto e si rese conto dell’ampia portata del problema della schiavitù, che sembrava non suscitare alcuna reazione nella comunità internazionale.

Fu così che nel 1995 CSI iniziò la sua missione di liberazione degli schiavi, sostenendo la rete locale clandestina che cercava di riportare queste persone al sud, sponsorizzando iniziative di pace tra le comunità arabe e i Dinka e lanciando una grande campagna a livello internazionale per sensibilizzare l’opinione pubblica e le autorità del mondo occidentale.

Sul campo i risultati non tardarono ad arrivare. Ogni anno migliaia di persone venivano affrancate dalla schiavitù grazie al sostegno logistico e finanziario di CSI, che da una parte garantiva le 50’000 sterline sudanesi (65 franchi) necessarie per pagare la liberazione e il rimpatrio di ogni persona, dall’altra forniva agli ex schiavi l’assistenza medica e tutto ciò che potesse favorirne il reinserimento nella società, a partire da una capra a testa.

A livello diistituzioni internazionali invece il riscontro fu più sfumato. Nel 1999, dopo una grande opera di sensibilizzazione, l’UNICEF riconobbe finalmente che dei bambini e le loro madri erano effettivamente ridotti in schiavitù, termine che le Nazioni Unite preferivano evitare per ragioni politiche. Tuttavia, il riconoscimento dell’UNICEF irritò il Sudan, che con il sostegno di tutti gli altri Stati islamici, della Cina e della Russia riusciì a far revocare a CSI lo status consultativo presso le Nazioni Unite a Ginevra, accreditamento riottenuto solo nel 2023.

Al di là delle traversie sul piano internazionale, il lavoro di CSI per la liberazione degli schiavi è proseguito a ritmo sostenuto, anche dopo che nel 2011 il Sudan del Sud ha ottenuto l’indipendenza con un referendum sostenuto da oltre il 98% dei votanti. Nuove difficoltà sono però emerse nel 2023 con lo scoppio di una nuova guerra civile in Sudan, che non solo ha reso più pericolose le operazioni ma ha pure fortemente aggravato il problema della fame. Si stima che quasi 25 milioni di persone soffrano di insicurezza alimentare, mentre i morti si contano a decine di migliaia.

La situazione è ancora più drammatica per gli schiavi sudsudanesi, che generalmente vengono impiegati nei campi (gli uomini) o nei lavori domestici (le donne). Coloro che sono stati liberati, spiega CSI, raccontano di percosse, minacce di morte, lavori forzati, insulti razzisti e religiosi, abusi, stupri, persino uccisioni nel caso si sia scontentato il padrone o si sia tentata la fuga. Gli schiavi sono costretti a convertirsi all’Islam e le ragazze vengono sottoposte a mutilazioni genitali, considerate un obbligo religioso nella regione.

Quest’anno CSI festeggia i suoi 30 anni di impegno per la liberazione degli schiavi in Sudan. Ma non è una festa, perché ci sono ancora decine di migliaia di persone da liberare, molte delle quali sono nate in schiavitù, spesso a seguito di violenze, e non hanno mai conosciuto la libertà. L’impegno di CSI resta quindi lo stesso: continuare «finché l’ultimo schiavo non sarà libero».

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